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Anche le fake news sono narrazioni
In 1 Febbraio 2018 da Debora BorgognoniDI STORYTELLING, LETTERATURA, E SOCIAL MEDIA
Ieri ho letto un libro interessante sulle fake news: #Iocredoallesirene. Come vivere (e bene!) in un mare di fake news, di Andrea Fontana, edito da Hoepli Editore, 2017.
Il saggio spiega in modo chiaro e semplice il motivo per cui siamo portati a credere alle fake news, e per farlo si avvale delle tecniche dello storytelling, di cui tra l’altro – e non è un caso – Fontana è grande studioso e il maggiore esperto italiano.
Fake news spiegate attraverso le logiche dello storytelling: ma cosa significa? È semplice. Il concetto è reso attraverso una serie di storie che hanno come leitmotiv le sirene. E le storie funzionano perché l’autore utilizza delle tecniche narrative ben precise per incuriosirci: c’è sempre un protagonista, un co-protagonista, un antagonista, un fatto caldo, una morale, lo svelamento di un “mistero”…
Era vero? Le Sirene esistevano e io le stavo “incontrando”? Non ci potevo credere ma quella trasmissione era così plausibile che stava rimescolando ogni mia conoscenza. Qualcosa dentro di me cominciava a fare domande: ma era reale o era falso? Era un documentario fatto molto bene o un fake clamoroso? La realtà veniva messa sotto-sopra e le mie certezze si rimescolavano? […] Erano passate quasi due ore. La docu-fiction volgeva al termine e io mi ritrovavo sulla poltrona frastornato, in preda a una sorta di trance in cui avevo assistito alla documentazione del fatto che le Sirene esistono pur non essendone testimone diretto. Come era possibile che mi sentissi così: disorientato tra “credibile”, “verosimile”, “plausibile” e “reale”?
«Eccola, la mise en abyme», mi sono detta. Parlare di come funzionano per noi, nel nostro cervello, le notizie false – che crediamo vere perché sono verosimili avvalendosi di tecniche narrative precise – attraverso le stesse tecniche narrative finzionali: non è diabolico?
Fontana continua:
E, se ci pensate un momento, questo modello è molto simile al format con cui di solito vengono costruite le fake news […]
Alla fine, quindi, Fontana ci fornisce sempre la spiegazione della storiella per arrivare al concetto di fake news.
Mi è venuto in mente un argomento che mi frulla in testa da molto tempo. Precisamente da quando ho terminato e pubblicato il saggio critico Lo scrittore emergente in Italia. Analisi di una subcultura nella comunicazione mediale (Libreria universitaria edizioni, 2017).
Faccio un passo indietro. Qualche giorno fa una studentessa, di cui sono tutor, mi ha chiesto spiegazioni sul concetto di suspension of desbelief. Le ho spiegato che l’espressione suspension of desbelief significa “sospensione dell’incredulità”. La teorizzò in modo compiuto e sistematico Samuel Taylor Coleridge nella sua Biographia Literaria del 1817.
Quando noi, in veste di lettori, ci addentriamo in un romanzo – o in una qualsiasi narrazione fiction, ossia di fantasia -, per poter provare piacere in ciò che leggiamo, per poter sentire empatia verso i personaggi, abbiamo bisogno di credere momentaneamente a ciò che ci viene raccontato. Coleridge la chiamò “a willing suspension of desbelief”, cioè una volontaria sospensione dell’incredulità. Ecco il termine chiave: noi sappiamo che è fiction.
Prendendo un classico della letteratura, per esempio Il ritratto di Dorian Gray, noi sappiamo che non è esistito un uomo di nome Dorian Gray, ci rendiamo perfettamente conto che nessun Basil Hallward ha dipinto un ritratto che ha iniziato a vivere di vita propria, che nessuna Sibyl Vane si è suicidata per la cattiveria del suo amato e così via. Ma se leggessimo Dorian Gray con il senso critico – o, appunto, l’incredulità verso il fantastico – che usiamo nei confronti della vita quotidiana, non potremmo provare il grande piacere di addentrarci nel mondo di Oscar Wilde. Decidiamo perciò di crederci momentaneamente, sospendendo la nostra incredulità in modo volontario.
Importante dire che questo piacere e questa empatia verso protagonista e personaggi sono indotti da tecniche narrative precise, che lo scrittore conosce molto bene e che utilizza proprio allo scopo di irretire, ingaggiare il lettore. L’autore apparecchia un mondo che entra a far parte di una vera e propria eterotopia, cioè viene a essere un mondo “sospeso” in cui tutto è possibile, a patto che le dinamiche siano spiegate, che ci sia una logica in cui il lettore si può riconoscere, che facciano quindi parte della sua esperienza. Si instaura infatti un patto tra autore e lettore, in cui il lettore prova piacere solo se riconosce il linguaggio dell’autore, proprio perché è ben disposto a sospendere l’incredulità, ma deve poter confutare ciò che gli viene proposto dall’autore.
Come detto, il luogo dove la suspension of desbelief è possibile, e non solo, è lecita (perché se credessimo davvero che esiste un Dorian Gray e tutto il resto non saremmo esseri dotati di raziocinio) è tradizionalmente il romanzo, cioè la letteratura.
La mia teoria è che questo luogo si stia sempre più spostando verso i social media. Quando dico che il nuovo luogo deputato alla suspension of desbelief è il social media, dico che le dinamiche che scuotono il lettore-tipo sono state trasportate anche su social come Facebook: siamo momentaneamente disposti a credere nella fiction, sappiamo che i rapporti umani che stringiamo hanno solo la parvenza di autentici rapporti umani, ma fanno parte di una narrazione complessa che chiama in causa gli stessi elementi presenti nella letteratura.
Gli scrittori di ultima generazione (i TQ, diciamo, anche se so che a loro non piace quell’etichetta) stanno capendo che un social network come Facebook è sfruttabile per creare narrazioni alternative che possono ingaggiare il lettore. Anche se, per ora, il traguardo – o il trofeo – è ancora il libro vero, inteso come paradigma-libro.
[…] lo stesso mondo dei social media tende alla vera e propria dissoluzione. Dal successo di Snapchat con cui testi, immagini e video sono visibili per sole ventiquattro ore, tutti i social media si stanno adattando al testo rimosso. Siamo di fronte a un ritorno all’oralità, che richiederebbe quindi la memoria per la fissazione dei contenuti? Ma la memoria poco ha a che fare con quel mito del tempo reale cui la nostra epoca assiste: al contrario la memoria è tradizione, è storia. In tutto questo, non è più lo scrittore l’emittente di tale messaggio. O meglio, è l’emittente all’interno di quel paradigma consolidato che è il libro, ma diventa il mezzo per far vivere il mondo alternativo all’interno dei social media. Qui il vero emittente è la comunicazione.
(Lo scrittore emergente in Italia…, pp. 99-100)
Dunque è proprio così? Crediamo alle fake news perché abbiamo spostato il piacere della lettura dal romanzo al social media? Abbiamo quindi bisogno di credere in una narrazione ben organizzata, ben confezionata perché questa sospensione dell’incredulità sia sempre messa in atto, sia efficace nel procurarci piacere? Devo precisare che questo “noi” vuole significare “coloro che hanno un alto grado di literacy”. So che in Italia la questione literacy è preoccupante: per chi crede davvero alle fake news – vale a dire chi non lo fa con le dinamiche dell’immersione nella suspension of desbelief (Fontana stesso ce lo dice indirettamente, quando ci spiega che, seppure uomo di alta cultura, ha creduto alle “sirene”) – dovrei scrivere un capitolo a parte, che tocca solo accidentalmente le regole della narrazione.
Le storie degli anni Venti del Terzo millennio sono quindi – per questi scrittori, lettori, o colti in generale – letteratura prêt-à-porter, messe in scena sui social media e protratte persino nella vita quotidiana (non avete mai avuto la sensazione che la persona che avete davanti, magari mentre state bevendo un caffè, stia vendendo se stessa simulando un’autenticità che invece puzza di affettazione?)?
Mutuando una frase detta dal fascinoso Humphrey Bogart in Deadline – USA: È la narrazione 2.0, baby!
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