Le storie superbe . SUPERBIA
La confessione – II Parte
In 24 Gennaio 2016 da Sara MillaII
L’ecografista aveva voglia di parlare, e quindi gli perlustrava l’addome e nel frattempo gli faceva un mucchio di domande, non sulla salute, ma sull’anima. – Lei è un prete no? Allora, vediamo un po’ quest’anima – Ermete sorrise al soffitto, tristemente. Pensava a lupi, alla mandria di mantelli scuri che si addensavano sulla via sassosa del paese, verso la porta, che ora riconosceva, era quella della sua chiesa. Il medico asserì che andava tutto bene, ma dell’anima nemmeno l’ombra. Ermete si rivestì e poi, mentre stava sulla porta, il medico di nuovo lo richiamò: – Insomma, padre, l’anima non esiste -.
– Forse – rispose lui. E andò via.
Avrebbe dovuto aspettare l’infermiera per ritornare in reparto, ma aveva sete e cercò il bar. Aveva anche voglia di vedere gente sana che si abbeverava di schifezze di fronte a un banco cromato e scintillante. Gli piaceva osservare le scatole infiocchettate dei cioccolatini che tanto gli ricordavano quelle di caramelle, rosse come il cuore, che lui donava a sua madre il giorno della sua festa, dopo aver contato i soldi di ragazzino messi da parte durante l’anno.
Prese dell’acqua minerale con un po’ di limone e stette tranquillo a guardare il viavai di ordinazioni, a sentire le chiacchiere, i ragazzini che correvano e schiamazzavano intorno alla vasca dei pesci, le tartarughe d’acqua che si arrampicavano sui massi della fontana sotto un sole implacabile e un’aria umida. Era molto stanco e da molto tempo, da quando la malattia aveva deciso di sbizzarrirsi, di cambiare schema, di fare l’originale. Era buffo che avesse ricordato la sua prima chiesa. Quando ci si era così affezionato da sentirsi come l’erba che cresce invincibile tra i massi, lo avevano mandato via. Persino chiuso la parrocchia, perché quei quattro animali che si trattenevano in cima, forse non ne avevano diritto. E non gli avevano mai più dato una parrocchia, una sede stabile, una casa.
Per un certo periodo era tornato a Malta. Si era chiuso nella casa di sua madre, e da lì osservava il mare. Ed era felice, e questa felicità che lo pervadeva era come una porta di ferro che impediva il passaggio di qualsiasi altra considerazione. Era il bene, era la cosa giusta. Avere la felicità e tenersela buona. Lavorare per mantenerla. Ecco, a questo punto, a cosa era servito strappare le parole di bocca ai suoi parrocchiani, riuscire a varcare le soglie delle loro oscure case, passare in quelle porte strette e trovarvi con meraviglia focolai luminosi, oggetti utili e curati, idee scarne e verità inoppugnabili, a cosa era servito interrogarsi la notte e al mattino lavorare, imparare dalla loro miseria? Erano come un branco di lupi silenziosi, venivano in chiesa senza alcuna richiesta, senza alcun turbamento. Uno di loro gli disse che veniva a pensare. Era la chiesa lo spazio della parola, non della necessità. Quando aveva compreso questo, accettò che al posto della predica a volte ci fosse il silenzio, o qualche domanda.
– Cos’è il peccato? – mormorò. Poi si riscosse, pagò la consumazione e tornò alla sua stanza, al suo letto bianco, alla finestra sui platani del lungofiume immobili nella calura.
Il suo vicino si presentò, e così la moglie. Lui lo osservò di sfuggita ma gli parve una cosa grave. Era un uomo vitale e timido, e sua moglie sembrava arrabbiata, con lui, con le lenzuola del letto il cui ordine non risultava rigido e marmoreo, con la finestra chiusa e poi con la finestra aperta, con il caldo e poi con il freddo dell’aria condizionata. Infine si calmò e rimase seduta a tenere la mano del marito. Lui le diceva: – Ho capito tante cose – e lei non rispondeva, lo sogguardava dai grandi occhiali spessi, uno sguardo verde, sfiduciato. Pensò malvolentieri ai brevi addii della sua vita, alle parole, risultate le ultime, tra le tante che ci si scambia come se ci fosse un domani di eternità.
Quando la donna andò via, rimasero soli e l’uomo cominciò a parlare, gli chiese se era un prete, se era straniero, gli chiese di Malta, sempre guardandolo per poco negli occhi, e poi sfuggendo burberamente, con grande intensa timidezza. Considerò per un bel pezzo l’originalità del suo nome, dicendo che era insolito, che era bello. Ermete lo guardava e rispondeva con pazienza alle sue domande, accolse il racconto della sua malattia, e alla fine tacquero senza imbarazzo, perché non avevano altro da dirsi in quel momento. Arrivò la cena e l’uomo la derise, lui che aveva avuto un ristorante, che se ne intendeva di cibo, anzi quasi non parlava d’altro. Ermete non poteva mangiare molto da una vita e aveva rinunciato a pensarci troppo. A volte sognava di addentare delle torte e questo in parte lo compensava.
Venne la notte, la terapia ai malati, il silenzio. Nei giorni seguenti riuscirono a stabilizzare la malattia di Ermete e a considerare la possibilità di dimetterlo aggiustando la cura. Lui e il suo vicino erano intanto diventati amici. L’uomo era buono e pieno di affetto, ma anche colmo di ritrosie e paure. Aveva avuto giornate di grande sfinimento e giornate dolorose. Era un uomo che andava di corsa e ogni tanto sbuffava perché la fine era lenta. In capo a poco Ermete venne dimesso. Salutò il suo amico promettendo di tornare e si scambiarono i numeri di telefono e gli indirizzi. Gli mancò non essere più presentato con enfasi a tutti coloro che venivano in visita, come il “sacerdote di Malta”. Di solito dicevano di lui, con una certa sciatteria e intenzione, che era un prete, un prete straniero.
Ermete riattraversò il ponte in senso contrario e si fermò di nuovo a guardare il fiume. Le giornate erano mutate, il cielo era basso e minaccioso, le acque tormentate e torbide. Guardò verso la finestra della loro stanza e si sentì liberato e spaventato. Tornò alla sua camera in un collegio di Padri, alla mensa un po’ più ricca di quella dell’ospedale, alle funzioni serali in una chiesa in periferia. Sentiva che qualcosa con l’aggravarsi della sua malattia era cambiato. Oppure che la sua coscienza era arrivata a condensare tutte le sue richieste intorno ad una stupida domanda: cos’è il peccato?
Eppure un’ora prima della messa sedeva in confessionale ed attendeva di ascoltare i fatti degli altri, quello di cui si accusavano, e quelle azioni di cui dicevano di pentirsi. Ma non gli sembravano peccati, forse ne aveva perso il senso, forse il diabete gli cominciava ad offendere il cervello. Gli sembrava che tutti si accusassero di inezie, e venissero a denunciare peccati come si denunciano le tasse, o si timbra un cartellino, o si fa il bagno la domenica d’inverno. Dopo quei montanari silenziosi, tutto, ma proprio tutto, gli era apparso frivolo e incostante. Tranne il suo amico, in ospedale. Pensò di andare a trovarlo e una mattina, pioveva sulla città con una impetuosità implacabile, si trovò ad attraversare il ponte e a cercare di nuovo la stanza e il letto dell’uomo, che era ancora lì, non più molto lucido, ma che fu contento di vederlo. Nel trovarlo in quello stato pensò di tornarsene via, di mettersi in salvo. Ma l’uomo era felice e sollevato, e lui rimase.
La giornata era rumorosa, il vento trasportava la pioggia e il fiume, le finestre venivano chiuse in fretta e a questo seguivano esclamazioni di meraviglia e sollievo, come se ci si fosse riparati dal pericolo in extremis. Il suo amico a volte era lucido, altre volte diceva di volere un gelato e poi una birra, e se gli portavano un cremino non voleva più cedere il bastoncino e lo stringeva tra i denti e bisognava ingegnarsi a toglierglielo con l’inganno per evitare che si ferisse. Poi, venne giù un pomeriggio violaceo. Il vento cadde e la pioggia divenne un mormorio. Allora l’uomo sembrò riaversi, guardò Ermete e gli disse: – Voglio confessarmi – Non aveva con sé la stola, né altro. Avvicinò la sedia ancora di più al letto e piegò il capo per ascoltarlo. Non avrebbe voluto, non ne poteva più del tormento degli uomini, e desiderava solo la loro allegria. Ma era tutto quello che poteva fare per il suo amico.
Lui gli disse che amava sua moglie, ma glielo aveva detto poco. Che suo figlio era un uomo buono, e pieno di genio e che questo lo aveva sempre spaventato, per cui aveva cercato di svalutarlo, di piegarlo ad un pensiero più conforme, che anche lui potesse condividere, e lo aveva costretto a dubitare di se stesso. Aveva sempre temuto gli eccessi della sua generosità per cui in alcuni momenti aveva negato l’aiuto ai fratelli, o ai vicini, ed elargito in momenti sconclusionati e fuori luogo: – Insomma – mormorò – ho sprecato quello che avevo, ci ho sputato sopra, il piatto mio era ricco e mi sono mosso come un poveraccio affamato e risentito. –
Ermete gli tenne stretta la mano. Attese che lui si calmasse, che il respiro si facesse più dolce, più raro. Lo assolse e lo benedì. Lo ringraziò, ma il suo amico non poteva più sentirlo. Lo lasciò un attimo alle cure degli infermieri e si spostò a guardare la città nera e assediata dalla pioggia.
– Cos’è il peccato? – Era un inverno freddo e stavano tutti in chiesa. La luce elettrica gliela avevano tagliata e c’erano accese tutte le candele, il manto di stoffa delle statue, intessuto di fili dorati, scintillava. A volte quella comunità si faceva delle domande, ma non si aspettava veramente delle risposte. Infatti lui non rispose. Cosa avrebbe dovuto dire? Di non fare il male? Di fare il bene? Ma loro già lo sapevano. Sostò ancora davanti al letto del suo amico, poi gli accarezzò le mani e uscì dalla stanza. Sperò di non incontrare nessuno, sperò di essere solo, con il grande dono che aveva dato in pegno a lui quell’uomo. La pioggia era torrenziale, l’aria fredda. Il fiume scorreva e saltava sotto il ponte.
La prima parte la trovate qui
Sara Milla è educatrice, scrittrice e organizzatrice di eventi culturali e mostre d’arte a Roma, dove vive. Ha pubbicato due libri:
- Il rischio della formica – Epika edizioni
- Il rifugio – Ottolibri
Navigazione
Consigli
Articoli recenti
- Nude Jeannie 26 Marzo 2024
- I sette (non preti) del cinema italiano 24 Marzo 2024
- Rompicapo 23 Marzo 2024
- L’AI e i viaggi 22 Marzo 2024
- Opinioni 12 Marzo 2024
Lascia un commento