Ricettacolo - Il concorso
La moglie
In 20 Settembre 2017 da Redazione Seven BlogIl racconto terzo classificato di Ricettacolo – L’Ira
di Francesca Lesen
Alla sera mi facevano male i piedi perché in tutta la giornata mi ero seduta solo pochi minuti e non avevo fatto altro che sfaccendare dietro al bancone, stretta tra mensole, lavandini e sportelli di frigoriferi.
Si cammina con passi scomodi, quasi in obliquo. Sono passi frettolosi che il cliente non deve e non vuole aspettare. La cassa, la macchina del caffè, il ripiano con i liquori, sembrano prossimi gli uni agli altri ma non per le braccia del barista, che in una striscia di linoleum da pulire e ripulire, impara a muoversi come un danzatore sul ritmo delle richieste degli avventori del bar.
Bisogna stare attenti alle tante cose fragili ben disposte in quel micromondo. E non parlo solo dei bicchieri e delle tazzine, ma soprattutto mi riferisco alle debolezze dei clienti. Entrano per una pausa e vogliono sentirsi accolti, qualunque sia il loro umore. Sta a te capire tutto. Una battuta, un come stai, poche parole, la fretta, la calma, la discrezione nel correggere il caffè o l’attenzione di girare il manico della tazzina a sinistra se il cliente è mancino.
Il barista è uno psicologo col mal di piedi. Ma quelli in fondo sono affari suoi.
Un pomeriggio entra una coppia sulla quarantina. Sono freschi di doccia e deodorante. Bei vestiti e facce rilassate di chi quando ha il giorno libero è libero davvero. Scherzano confidenti con le facce vicine e si preparano alla serata chiedendomi un mojito.
È un po’ presto forse per un mojito ma chi sono, io barista, per giudicare la gradazione alcolica altrui? Comincio a preparare.
La prima cosa da fare è mettere le foglioline di menta nei tumbler. Otto foglie per ogni bicchiere e sopra lo zucchero di canna. Ne metto 3 cucchiaini ciascuno.
Hanno smesso di parlare e stanno guardando me. Allora esibisco la mia destrezza mentre schiaccio le foglie con un pestello contro il lato del bicchiere. Sono già Cuba lo scricchiolio dei granelli sul vetro e l’aroma fresco della menta. Taglio il lime in due metà uguali e senza sforzo ne lascio uscire il succo colandolo nei bicchieri. Le narici dei due si allargano e si esaltano all’aspro dell’agrume.
Faccio tintinnare più del necessario il ghiaccio nei tumbler perché mojito è aroma ma anche ritmo e continuo con una cascatella di rum bianco, angostura e acqua gassata. Sono brava. Non ho bisogno di misurare le quantità dei liquidi che aggiungo, lo so, nella misura di 50 ml per il rum e di due leggeri movimenti del polso per gli altri due ingredienti.
Una mescolata ad arte per servire i due cocktail ancora turbinanti quando alzo lo sguardo incrociando quello di lei.
Il vortice nel suo bicchiere investe e contagia il mio sangue di barista docile e sorridente. Il sangue mi ribolle e formicola spostandosi verso il cervello. Le gambe non esistono più, lo stomaco si svuota e tutta me stessa, sale dal petto urtando contro la testa.
È lei! È lei! La odio non solo per ciò che m’ha fatto, ma anche perché non si ricorda di me. O forse sì ma non le interessa. È già andata oltre. Altri uomini, altre mogli e altre serate da innaffiare a mojito.
«Ce li porti al tavolo?», fa lui.
Scaraventerei l’intero bancone contro di loro ma… non posso… sto lavorando ed è un bene che alla sera mi dolgano i piedi. Allora sorrido e servo loro un «Certamente! Accomodatevi!».
Poi mentre camminano verso il tavolo dandomi le spalle, afferro i due bicchieri per poggiarli su un vassoio e con un odio e una rabbia bollenti, lascio cadere uno spumoso sputo in uno dei due cocktail.
Sarà niente è vero, ma se la uccidessi, di nuovo, a pagarla sarei io.
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