Le storie superbe . SUPERBIA
Operazione plenilunio – I
In 2 Ottobre 2016 da Gianfranco Monaca«Sarebbe meglio restare a bottega, oggi, con quello che si vede in giro…».
«Vado soltanto a consegnare questo trapano a Menahem, se no è inutile che ci abbiamo lavorato tanto per finirlo», rispose Jeoshua al garzone, un ragazzo nero di grasso fino ai capelli.
Nella bottega sinistrata da oltre sei mesi, Jeoshua aveva cercato di rabberciare quello che poteva per continuare a lavorare. Lo aveva fatto soprattutto per Abdel, il ragazzo che tutte le mattine correva grossi rischi per saltare il muro e venire a dargli una mano, per portare a casa quattro soldi: a casa si fa per dire, perché di case non ne aveva più, da quando un carro armato l’aveva centrata in pieno e le ruspe l’avevano rasa al suolo, dopo aver fatto sloggiare sua madre e i suoi quattro fratelli più piccoli. Il fratello maggiore era morto il giorno prima, esploso in un bar con tutto quello che c’era dentro, compresi sette avventori e il barista. Avevano detto che si era fatto esplodere apposta, per fare un attentato, Abdel non ci credeva, e quando arrivò a casa quella sera non trovò più la casa e sua cugina gli disse che erano venuti i soldati e adesso sua madre e i suoi fratelli erano a casa della sua zia Rivka.
Jeoshua caricò il trapano sul motocarro e attraversò i quartieri periferici. Menahem stava un poco fuori, in un insediamento di quelli che il governo aveva detto che dovevano essere abbandonati e smantellati per farci passare il muro. Menahem veniva dalla Galilea, e si era stabilito lì perché un russo gliel’aveva ceduto a buon prezzo, per farci un piccolo capannone e coltivare dei fiori. Poi aveva smesso i fiori perché non arrivava abbastanza acqua, e faceva un po’ il carrozziere e un po’ il meccanico di macchine agricole.
Quando sentì il motocarro venne fuori: «Shalom, aspetta che ti do una mano». Tirarono giù il trapano.
Una raffica di mitraglietta crepitò non lontano. Poi di nuovo.
«Vieni dentro, beviamo un tè freddo. Vuoi?».
Jeoshua tirò fuori un pacchetto di sigarette quasi vuoto: «Vuoi?»
Accesero una sigaretta, le due ultime del pacchetto, che finì stropicciato nel cassone della spazzatura. Bevvero il tè:
«Sei arrivato fin qui senza storie?».
«C’è tutto pieno di soldati, e c’è anche un bel po’ di gente, per via della Pasqua, ma non sono più le Pasque di una volta… Brutti tempi… Mi hanno fermato due volte, ma niente di speciale».
«Non si può più lavorare, ieri mi hanno fermato e mi hanno fatto andare in caserma; due ore e mezza per vedere se riconoscevo un tale, mai visto né conosciuto, ma il cliente l’ho perso».
La mitraglietta crepitò di nuovo, ma più lontano.
Menahem pagò il servizio e si salutarono. Il motocarro sparì nella polvere.
Jeoshua arrivò in bottega che Abdel non c’era. Trovò la chiave al solito posto, si lavò e uscì. Non sembrava più lui, pettinato e profumato com’era per l’occasione. Svoltò più volte nei vicoli, facendosi largo tra i pellegrini che affollavano i negozi di souvenirs – pochi pellegrini, ma i negozietti erano così minuscoli e pieni di roba invenduta che sembravano moltissimi – e le camionette della polizia. Mostrò i documenti e li ripose in tasca. Arrivò al circolo che era buio.
Il circolo era un posto dove al piano terra c’era un bar (una volta si chiamava il bar dell’asino, poi cambiò padrone e nome, ed era diventato il bar degli amici) e al piano di sopra c’era un salone che serviva per le feste, le cerimonie, le conferenze, secondo le necessità. Sulla porta una pattuglia ferma, che controllava tutti quelli che entravano. Un’altra volta i documenti. Con la pattuglia c’erano anche due in borghese, senza placchette di riconoscimento, una donna sulla camionetta e l’altro, piccoletto e magro, vicino alla porta.
Jeoshua salì e nel salone c’erano già quasi tutti.
Era una compagnia teatrale, quasi tutta fatta di artigiani e pescatori originari della Galilea, che girava il paese con su un cartellone molto intrigante. I testi erano scritti a più mani e gli spettacoli erano costruiti molto semplicemente – nessuno aveva titoli accademici, e neppure diplomi di scuole superiori – ma riscuotevano un enorme successo tra la gente. Era praticamente un canovaccio costante, fondamentalmente creato da Jeoshua, che era anche il regista – su cui ciascuno degli attori lavorava liberamente, arricchendo i testi ogni giorno a partire dall’attualità.
Dovunque andassero, come appariva la locandina la gente si passava parola e lo spettacolo si svolgeva quasi sempre all’aperto, perché non esistevano sale abbastanza capienti. C’era in più il fatto che, tolte le spese vive, i proventi degli spettacoli andavano tutti in beneficenza, e questo aggiungeva credibilità alla compagnia. Le autorità avevano dapprima trascurato la cosa, poi l’avevano rubricata come fatto di costume da non perdere di vista, ma ora ne diffidavano apertamente. Ogni volta mandavano dei loro emissari per controllare e ogni volta ricevevano rapporti poco rassicuranti. Consideravano globalmente la cosa come un fastidioso tarlo che progressivamente corrodeva la coscienza del popolo. L’ordine costituito ne veniva sempre fuori con le ossa rotte.
Il repertorio era molto vario, con brevi scenette dal titolo trasparente per alcuni, misterioso per altri: Chi ha visto la mia pecora?, Una moglie per cinque mariti, Non tutto è come appare, La sirena e i vecchi onorevoli, Semi buoni e i terreni cattivi, Il club degli Infallibili, Si fa presto a dire messia.
Ormai, quando la locandina annunciava gli spettacoli, i negozi chiudevano prima e la gente mangiava per tempo e correva per sistemarsi ai primi posti, portandosi sedie e sgabelli.
La domenica prima di Pasqua fu un tale trionfo, che Jeoshua fu sollevato a forza, sistemato sulla groppa dell’asinello che aveva recitato nella scena del Samaritano, e portato in trionfo per le strade del centro, tra alcune centinaia di spettatori, entusiasti dell’ultima novità del cartellone, “La cena che andò di traverso a Shimon”, dove l’attore protagonista era appunto Shimon-bar-Jona, il capocomico giocoliere e illusionista dalle mille risorse, per il quale le folle andavano in visibilio, che impersonava un famigerato Shimon, ricco bacchettone insopportabile ficcanaso e confidente della polizia segreta; una nota e un tempo apprezzatissima prostituta recitava da prostituta che chiamava per nome i vecchi clienti e faceva andare di traverso la cena ai bigotti, che ben la conoscevano ma avrebbero preferito non farlo sapere.
Molti degli aventi potere avevano deciso che lo scherzo era durato abbastanza, e la miglior cosa era farlo finire al più presto.
«Brutta aria, questa sera – disse Shimon – c’è pieno di sbirri».
Natanael aggiunse: «Sembra che abbiano portato dentro uno della guerriglia, quello dell’attentato della settimana scorsa. Un certo Bar Abbas».
«Un certo Bar Abbas? Tu, Natanael, da dove vieni? Bar Abbas è un pezzo grosso, qui nei vicoli lo conoscono tutti, e se lo hanno portato dentro, sta’ sicuro che non ce lo lasciano a lungo. O lo fanno fuori, o lo mettono fuori».
«Bar Abbas non lo toccano, vedrai. Fanno un po’ di fumo, per distrarre l’opinione pubblica, poi lo fanno sparire, fino alla prossima occasione. Non hanno il coraggio di liquidarlo, salterebbe tutto per aria. Devono negoziare, e per il momento nessuno ha le carte vincenti. Come al solito, cercheranno un capro espiatorio, qualcuno che gli dà noia ma che non serve né a loro né agli altri, perché dà noia a tutt’e due».
Jeoshua era appena entrato e aveva captato l’ultima frase. Filippo, il greco, che dava le spalle alla porta, avrebbe preferito non averla detta.
«Siamo tutti sulla lista, Filippo!», lo rassicurò Jeoshua con una manata sulla spalla. «Tanto vale non prendersela. Qualunque momento è buono, se vogliono tirare la rete».
«Non scherzare, Jeoshua, – disse intristito Shimon – Quei due che erano qui sotto io li ho già visti. Due ultraortodossi che fanno la spia per i servizi segreti. Con quello che sta capitando in città, non mi piacciono per niente».
«Potrebbero essere venuti a proteggerci. Mi risulta che sanno distinguere molto bene il terrorismo dal semplice dissenso. Hanno bisogno di negoziatori credibili, e tu sei uno che può veramente dare una mano per cambiare le cose».
In questi termini Jehudah si era rivolto a Jeoshua con vero entusiasmo, e gli altri lo avevano ascoltato con stupore. Jehudah proseguì accalorandosi: «È tempo che tu esca finalmente allo scoperto, e le cose sono arrivate al punto giusto».
«Per fare che cosa?», lo interrogò Shimon, come se avesse paura di sentigli dire altro.
«Per dare un senso a tutto il lavoro che stiamo facendo da tre anni a questa parte! Sanno benissimo che la gente ti seguirebbe proprio perché sei politicamente pulito, e avresti un successo straordinario. Non credere che non siano al corrente, e farebbero carte false per offrirti una candidatura. Hanno capito benissimo, finalmente, che non siamo una filodrammatica di beneficenza e neppure una banda di guitti da dopolavoro, ma una realtà importante nel panorama culturale di questo paese e siamo in grado di farci ascoltare dagli uni e dagli altri. Tu solo, oggi come oggi, puoi salvare questa situazione che sta sfuggendo dalle mani a tutti i politici professionisti, tutti arroccati sui loro slogan che non interessano più a nessuno…».
… continua domenica prossima…
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