DiarioXY . LUSSURIA
1+1 – La cameriera di Sherlock
In 6 Maggio 2017 da Chiara MenardoPrendimi per mano e portami in un posto che conosci solo tu. Un posto che diventi nostro, solo nostro anche tra mille persone. Un posto che sia nostro perché, così, lo vediamo solo noi.
Prendimi per mano e dimentica tutto. Dimentica chi sei, dimentica chi sono, dimentica il violino e i giornali e il camino, il fumo pesante della pipa e la ragione.
Dimentica tutto e ricorda me. Solo me, e noi, e quel nuovo cielo, un cielo nuovo di zecca, mai visto prima e che nessun altro vedrà oltre a noi, che potrà essere blu oppure verde smeraldo, o rosso come la divisa delle guardie di Buckingham Palace. Potrà essere del colore che vuoi.
Invece no, Signore. Non ti è dato, non ci è permesso, e poi, in ogni caso…
Pochi scellini, lavoro silenziosa e poi via, sparisco nelle vie strette, tra gli odori di Londra.
Due pomeriggi a settimana. Dormi, Signore stordito dal fumo e dall’enormità dei pensieri, dagli incubi che certo ballano un sabba intorno al tuo cuscino, la notte. Lo so perché rassetto le coltri del tuo letto e le trovo ancora stazzonate e bagnate del sudore dei sogni, dopo così tante ore dal tuo risveglio.
Come aspetto i miei due pomeriggi, Signore, nemmeno questo tu lo sai, non riesci proprio a dedurlo, vero? Aspetto paziente che venga il mio tempo.
Ecco, lo vedi che la tua ragione non spiega tutto?
Come fa a spiegare i respiri affannosi e il rossore, come fa a capire, la tua logica, perché la gola si inciampa, la lingua si ferma e riprende come un cane che scarta correndo in un prato?
Abbassa gli occhi velati su chi ti sta davanti in ginocchio, e osserva. Per una volta in vita tua, osserva davvero, spegni il cervello e osserva chi ti sistema le ghette per mezzo scellino.
No, Dio del cielo, meglio di no. Non guardare, non mi guardare. Non soffermarti sulle toppe già lise che coprono gli strappi della mia gonna acquistata già vecchia.
Mi vergogno tanto di quella che sono, delle guance cascanti e delle scarpe rotte. Mi vergogno della pelle screpolata e dei miei occhi cerchiati di bruno.
Eppure, fallo, invece. Guarda. Capisci. Spegni il cervello e comprendi, ti prego.
Lascia che ancora ti lucidi le ghette, ma capisci. Non posso aspirare, sperare, osare, non posso di certo. Ma posso almeno desiderare che tu comprenda davvero, Signore?
Quando, chinata sul camino, spazzola e secchio e paletta tra le mani nere di fuliggine e calli, ti ascolto parlare di ragione e di “consequenzialità”, e di “osservazione attenta” beh…
Osservi tutto così attentamente che non vedi me, Signore.
Il tozzo di pane secco, ammuffito e silenzioso che mette ordine nel caos che tu crei, senza esser visto. Che prova a dare una parvenza di calore al freddo della ragione che ti circonda. E tu non vedi.
È triste, lo sai? Tutti dovrebbero vedere, specialmente tu, eppure sei cieco.
Ci sono i signori, i grandi signori, le Autorità che arrivano, ti rendono omaggio, bussano e camminano piano per disturbare con grazia le tue riflessioni al fumo di papavero, chiedono ossequiosi se la mente eccelsa può destarsi un momento per risolvere i loro gravi problemi o le ambasce feroci del male, ti lodano e si sperticano in ringraziamenti per il solo privilegio di essere al tuo cospetto.
Ti desti dall’esilio in cui ti sei confinato, osservi, deduci e risolvi. Applausi, inchino, violino, poltrona, nebbia dentro il salottino e anche fuori, ritorno al letargo fiorito e multicolore della fuga.
Signore, 1+1=2 è una prigione dalle pareti nude e fredde, se non sai guardare oltre.
Tra le mura spesse delle logiche deduzioni, vivi negando. Ciò che non si spiega, non esiste. Ciò che non accetti, non esiste. Perché 1+1=2, e questa è la tua unica, immutabile verità.
E allora, come spieghi i palpiti e gli impeti ciechi? Come spieghi la speranza e il tremito? Come spieghi la vergogna e la bellezza senza motivo?
Sì, Signore, certamente, porto via il posacenere pieno, ha ragione, mi ero incantata un attimo. E non mancherò di portare su un secchio di legna nuova e secca per il camino, non si preoccupi. Lo so, sì Signore, lo so, la stavo guardando, ma non è che proprio fissavo lei, non volevo mancarle di rispetto, mi creda.
Abbasso lo sguardo, Signore, non si preoccupi, lei non ha nulla di strano, nulla che non vada. Mi ignori come fa sempre, Signore.
Io non esisto.
Vedi? Non esisto. Un’ombra sciatta e piena di toppe e di calli. Portami via, in un posto che invento per te, e guardami per una volta.
Oltre le toppe, oltre l’1+1 che può fare 3, o ventimila nel cielo che possiamo inventare io e te, se lo vuoi.
Ma non lo vuoi, Signore. Se 1+1 non fa due, se non è logico, allora per te non esiste. Se non si incastra alla perfezione, non è.
Spazzo il pavimento, lavo piatti e tazze, pulisco il camino. Esco sporca e impregnata di te e di polvere, nascondo le tue camicie in borsetta quando i polsini sono lisi e la sera, senza dirti nulla o chiederti un penny, le rassetto e le faccio tornare nuove. Quando ritorno le ripongo nel cassetto, pulite e aggiustate.
Tu non te ne accorgi, Signore, non devi accorgertene, perché questa è la cura. Non te ne accorgi perché non c’è logica nella cura senza interesse, dunque non esiste, semplicemente.
Rimetto a posto ancora la scrivania poi vado, Signor Holmes, va bene? Ho capito, mi perdoni, ha ragione, Signore: mi levo immediatamente di torno. Buonasera.
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