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Chernobyl: la menzogna di Stato
In 5 Agosto 2019 da Fabio MuzzioCinque episodi, perfetti e intensi che colpiscono allo stomaco. Chernobyl è una serieTv sulla menzogna, quella politica di un Paese al crepuscolo.
La menzogna sui sistemi di sicurezza, che è incurante del valore della vita umana; la menzogna di chi vuol ottenere la massimizzazione del livello produttivo; la menzogna degli scienziati che devono coprire una tragedia per la ragion di Stato.
E la menzogna si accompagna ai segreti che costellano il vissuto delle persone: il segreto sul pericolo che corrono coloro i quali devono intervenire subito dopo l’incidente e nei mesi successivi e non sanno a ciò cui vengono mandati incontro e quelli che tornano dal passato, sapientemente custoditi dai servizi segreti e che sono in grado di deligittimate chi si espone per far conoscere la verità.
Ci aveva visto giusto Mikhail Gorbachev quando nel 2006, a venti anni dalla tragedia di quel 26 aprile, disse che quell’esplosione rappresenteva la fine dell’U.R.S.S..
La Confederazione sarebbe resistita ancora cinque anni ma sarebbero stati di ulteriore agonia, ulteriormente colpita dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine degli ultimi regimi comunisti del Patto di Varsavia che aprivano una fase nuova per tutto il mondo; per la Russia che, seppur immensa ma non più alla guida di così tante nazioni tornate indipendenti o autonome, iniziava la strada di una apparente democrazia, repentinamente smorzata in un Paese che ha vissuto e vive tutt’ora la condizione di non aver conosciuto quella che in politologia si chiama poliarchia.

Valery Legasov e Boris Shcherbina, (frame dal trailer HBO) fonte YouTube
Chernobyl, di cui preferisco rivelare pochi dettagli perché non può mancare nel bagaglio televisivo personale, è strutturato nello stile della docufiction, con una ricostruzione dettagliata ed essenziale che ci riportano in maniera del tutto naturale in luoghi nei quali sono teoricamente abolite le differenze; la fotografia di Jakob Ihre sa rendere alla perfezione il grigiore verdastro della decadenza, la regia di Johan Renck, grazie all sceneggiatura di Craig Mazin, è abilissima nel condurci alla tragedia del Reattore quattro senza indugiare troppo nei particolari, seppur quando occorra siano molto crudi e realistici, perché le conseguenze fisiche o gli sguardi delle persone e anche dei cani sono più che sufficienti a portarci nel dolore causato dalla Centrale Vladimir Il’ič Lenin.
Chi visse quegli anni ricorderà anche l’ampio dibattito sulla scelta nucleare e quanto l’esplosione in Ucraina incise sulle sorti pure del nostro referendum del 1987 e a un profondo dibattito sull’utilizzo dell’atomo come modalità di produzione di energia ritornata dirompente nel 2011 con il disastro giapponese di Fukushima.
La ricostruzione riporta nei nostri occhi il disastro e le conseguenze, le vittime consapevoli e quelle involontarie, gli eroi consapevoli e quelli loro malgrado, il dramma dei bambini, la devastazione di un territorio senza dimenticare che la nube radioattività superò abbondantemente i confini sovietici con conseguenze sicuramente meno gravi ma mai del tutto chiarite nemmeno in Occidente.
La città fanstasma di Pryp”jat’ è l’emblema di tutto e sarà il luogo delle maggiori conseguenze: quella degli spettatori curiosi del ponte della ferrovia e quella dell’evacuazione, quella dei vigili del fuoco, i primi a morire in modo atroce, quella dei soldati sollecitati dal senso di Patria, dei minatori, altra “carne da macello”, orgogliosa e pronta al sacrificio, e di tutti coloro che a diverso titolo avrano a che fare con i mesi successivi della messa in sicurezza.
L’esplosione della centrale diventa il tragico esempio di ciò che sono i regimi totalitari: qualsiasi fuga di notizie minerebbe prima di tutto la presunta invincibilità inculcata al proprio popolo, più che il giudizio critico di chi ne chi ne vive al di fuori, aspetto successivo: la sicurezza interna viene prima dell’immagine esterna, la censura il requisito fondamentale.
Attraverso gli episodi si conosceranno i protagonisti di quei mesi e la coralità scelta dalla sceneggiatura ce li fa conoscere nel loro agire, nelle loro paure, nella loro ottusa dedizione alla causa, nella ricerca della verità, il tutto sotto il controllo vigile del KGB all’interno di un sistema che evidenzia tutta la propria inadeguatezza e inerzia.
Il cast regala un’interpretazione davvero incisiva e che farà entrare questa serie in quelle di culto. Jared Harris è il perno della storia, quel Valery Legasov, che apre e chiude la vicenda e che durante il processo ai responsabili della Centrale, fornirà una spiegazione esaustiva e semplice su cosa sia accaduto lanciando fatali accuse di incuria e, appunto, menzogna; Stellan Skarsgård è Boris Shcherbina, l’emissario del partito al quale deve rispondere in qualità di emissario e con cui Legasov si troverà a scontrarsi creando via via nel tempo un rapporto molto profondo; e poi Emily Watson, nei panni di Ulana Khomyuk, il personaggio creato a emblema di tutti gli scienziati che si sono adoperati con rigore, umanità e fermezza, per ricostruire l’accaduto e che si sono ritrovati tra le pagine degli appunti una verità tanto atroce quanto scomoda.
Gli altri personaggi rappresentano a diverso titolo la società civile che ha fatto i conti con l’esplosione e che riescono a condurre lo spettatore all’interno del loro dramma umano e più che raccontati qui, vanno visti e ricordati. Nessuno tra i sopravvissuti rimarrà immune sia nell’anima che dal punto di vista fisico.
Alla fine non riesco a trovare qualche difetto a una serie Tv che entra a pieno titolo in quelle memorabili.
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