Amatorius Secretum . LUSSURIA
Cassandra e la moglie di Lot
In 13 Febbraio 2021 da Debora BorgognoniCassandra e la moglie di Lot. Cos’hanno in comune queste due figure mitologiche? Cassandra almeno ha un nome. La moglie di Lot un’apposizione stonata, e oggi anacronistica: non vivrebbe se non vivesse lui. Cos’hanno in comune, quindi? Intanto, una poetessa: Wisława Szymborska. Una che ha vinto il premio Nobel per la letteratura e che ha saputo riscrivere la donna, l’amore, la storia, la sua epoca attraverso una tecnica poetica colloquiale in cui si innestano figure retoriche e stilistiche, figlie dell’avanguardia polacca.
Cassandra prevede. È questa la sua condanna. Cassandra sa già. La donna che sa dei maltrattamenti, degli stupri, degli abusi. Delle guerre, della noncuranza, dell’inganno. Che sa e non viene creduta.
Siamo noi, Cassandra, con la veste bruciacchiata, con il ciarpame di profeta, con il viso stravolto, inconsapevoli della nostra bellezza.
È Cassandra anche la moglie di Lot, la donna a cui non fu mai assegnato un nome, che osa guardare indietro e puf, diventa una statua di sale. Ma che le è mai venuto in mente? E lei risponde: non è stata solo curiosità, ma è stata l’improvvisa certezza che se fossi morta, lui non se ne sarebbe nemmeno accorto. E via, con un elenco di motivi.
La moglie di Lot si guarda indietro, Cassandra vede avanti. E Wisława Szymborska le fa scendere un attimo tra noi, giù dal mito, nel tempio incerto delle donne che vivono la breve vita tra due secoli contrastanti e per nulla eterni.
Nota: Wisława Szymborska nasce a Kórnik il 2 luglio 1923 e muore a Cracovia il 1 febbraio 2012. È la più influente poetessa polacca e si definisce, e a giusto titolo, una figlia del secolo. Vince il Premio Nobel per la letteratura nel 1996.
Monologo per Cassandra, tratta da Uno spasso, Libri Scheiwiller, 2003
Sono io, Cassandra
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima diÈ andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.
La moglie di Lot, tratta da Grande numero, Libri Scheiwiller, 1976
Guardai indietro, dicono, per curiosità,
ma potevo avere, curiosità a parte, altri motivi.
Guardai indietro rimpiangendo la mia coppa d’argento.
Per distrazione – mentre allacciavo il sandalo.
Per non dover più guardare la nuca proba
di mio marito, Lot.
Per l’improvvisa certezza che se fossi morta
non si sarebbe neppure fermato.
Per la disobbedienza degli umili.
Per tendere l’orecchio agli inseguitori.
Colpita dal silenzio, sperando che Dio ci avesse ripensato.
Le nostre due figlie stavano già sparendo oltre la cima del colle.
Sentii in me la vecchiaia. Il distacco.
La futilità del vagare. Il torpore.
Guardai indietro posando per terra il mio fagotto.
guardai indietro non sapendo dove mettere il piede.
Sul mio sentiero erano apparsi serpenti,
ragni, topi di campo e piccoli avvoltoi.
Non più buoni né cattivi – ogni cosa vivente
semplicemente strisciava e saltava in un panico collettivo.
Guardai indietro per solitudine.
Per la vergogna di fuggire di nascosto.
Per la voglia di gridare, di tornare.
O forse fu solo un colpo di vento
che mi sciolse i capelli e alzò la veste.
Mi parve che dai muri di Sodoma lo vedessero
e scoppiassero in risa fragorose più e più volte.
Guardai indietro per l’ira.
Per saziarmi della loro grande rovina.
Guardai indietro per tutti questi motivi.
Guardai indietro non per mia volontà.
Fu solo una roccia a girarsi, ringhiando sotto di me.
Fu un crepaccio a tagliarmi d’improvviso la strada.
Sul bordo trotterellava un criceto ritto su due zampette.
E fu allora che entrambi ci voltammo a guardare.
No, no. Io continuavo a correre,
mi trascinavo e sollevavo,
finché il buio non piombò dal cielo,
e con esso ghiaia rovente ed uccelli morti.
Mancandomi l’aria, mi rigirai più volte.
Chi mi avesse visto poteva pensare che danzassi.
Non escludo che i miei occhi fossero aperti.
È possibile che io sia caduta con il viso rivolto alla città.
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