IRA . Lettere dall'Ira
Di vigne rigogliose, di botti piene, e di mogli ubriache
In 5 Dicembre 2019 da Attilia Patri DPPartiamo da qui, da Anne Marie Slaughter, avvocato internazionale, analista di politica estera, preside e docente universitaria, prima donna a ricoprire il ruolo di Direttore della Pianificazione Politica per il Dipartimento di Stato USA, da gennaio 2009 a febbraio 2011, sotto il Segretario di Stato Hillary Clinton. Partiamo dallo stralcio di un suo articolo in cui spiegava i motivi per i quali aveva lasciato il suo incarico nel Dipartimento e riapriva una questione centrale nel dibattito “Donne-Lavoro”, rispolverando vecchi e nuovi interrogativi: maternità e carriera, cura e lavoro, ruoli di genere all’interno della famiglia e nel mondo del lavoro. Partiamo da una donna americana con una carriera prestigiosa e redditizia e dal suo “addio al lavoro” nella fase più turbolenta, quella adolescenziale, della crescita dei suoi due figli.
Donna americana, dove con quell’americana intendiamo l’espletamento di tutte le mansioni, private o pubbliche che siano, in un Paese che, nell’immaginario collettivo, sembra il massimo in fatto di possibilità, efficienza, pianificazione, risoluzione, soddisfazione. Americana, che diventa solo un aggettivo vuoto di opportunità se si pensa che, anche per la Slaughter, di fronte alla scelta casa-lavoro, quello che prevale, e lo fa a nome di tutte, è una specie di “imperativo materno” per cui, in realtà, la maggior parte delle donne non avrebbe scelta o, meglio, avrebbe solo quella “obbligata” del confinamento entro le mura domestiche o dell’accontentarsi di ruoli spesso inferiori alle proprie capacità per poter far fronte al meglio al ruolo materno e, quello più generale, di cura degli affetti domestici.
Partiamo dall’America e atterriamo sul pianeta Italia con i suoi meccanismi e ingranaggi che sembrano muoversi sempre sui soliti binari, senza scosse, sempre uguali, con conseguenti proporzioni e risultanze perfettamente allineati, dove “tanto” non può che dare “tanto”, mai o raramente di più, da cui non ci si schioda, a partire dagli stereotipi sui ruoli di genere pubblicati da Istat il 25 novembre, con periodo di riferimento anno 2018. Dati freschissimi e, concedete la franchezza, da stare freschi.
Perdonerete qualche percentuale necessaria e perdiamoci nel pensiero ancora di tanti, di troppi: “Per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” (32,5%), “Gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%), “È l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%). Il 58,8% della popolazione tra i 18 e i 74 anni, senza particolari differenze tra i due sessi, spalmato su tutto il territorio italiano, si ritrova in questi stereotipi.
A fronte di questi “stadi di pensiero” non stupisce che l’ultimo Rapporto Ocse sul tasso di occupazione femminile si attesti sul 47% contro una media europea del 60% e ci collochi al 69° posto per parità di stipendio e al 114° posto per partecipazione economica nel mondo. In Europa siamo davanti solo alla Grecia e al Nord-Macedonia. Anche sul piano prettamente domestico non ne usciamo molto bene: sono 22 le ore di differenza tra le 36 settimanali che le donne dedicano ai lavori domestici contro le scarse 14 degli uomini e, di fatto, rappresentano il divario maggiore tra tutti i Paesi industrializzati.
Non stupisce neanche che dal Rapporto Eurofound, in un confronto con 34 Paesi europei l’Italia esca a brandelli e, soprattutto, segnalata come un Paese in cui si assiste, in campo professionale, a una “segregazione di genere” dal momento che la maggior parte delle donne che lavorano è relegata in ambiti da sempre considerati prettamente femminili: lavori di cura, assistenza, educazione.
La cura, la conciliazione famiglia-lavoro, sembrano essere le vere penalizzanti nell’approccio e nella stabilità delle donne nel mondo del lavoro: come da tradizione spetta alla figura femminile modificare l’assetto lavorativo alla nascita di un figlio o alla subentrata necessità di accudire un genitore anziano.
Secondo gli ultimi dati Istat, solo il 57% delle donne madri riesce a mantenere un’occupazione, complici il non poter contare sui nonni perché mancanti o perché ancora in piena attività visti gli allungamenti pensionistici, gli asili nido, o altri servizi, assenti sul territorio, o troppo cari, o senza posti disponibili. Si assiste, secondo i sondaggi, a una vera e propria emorragia verso le pareti domestiche che diventano come gabbie escludenti. L’unica via di uscita, quando possibile, è l’inquadramento part time che, come evidenzia il Report “Le equilibriste – La maternità in Italia” di Save the Children, diventa per le mamme italiane una scelta quasi obbligata.
Eppure la Costituzione Italiana parla chiaro: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata
sul lavoro. E ancora: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. E, se ancora non bastasse, all’art.37 troviamo: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Parla chiaro anche la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con l’art.23: Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
Eppure, e nonostante le leggi vigenti, dovevamo aspettarcelo. Dovevamo capire da subito, già da quella seconda ondata del femminismo, quella dei primi anni ‘70, quando non si chiedevano uguaglianza e assimilazione al mondo maschile, tipiche delle prime rivendicazioni femministe dell’Ottocento, ma ci si batteva perché le differenze sessuali e biologiche non fossero elementi di discriminazione sociale e culturale, perché essere donna non relegasse a ruoli solo subalterni. Si doveva intuire che, mentre si scendeva nelle piazze, si formavano collettivi perché si rompesse il binomio anatomia – ruolo della persona, le idee di uguaglianza non trovavano un vero riscontro reale nel rapporto di collaborazione uomo-donna ma, anche qui, le donne erano piuttosto relegate ai margini e a ruoli secondari all’interno degli stessi movimenti: da angeli del focolare ad angeli del ciclostile non era stato un grande balzo in avanti nella parità dei diritti pur determinando una ancor più forte presa di coscienza che ha poi determinato la creazione di spazi solo femminili in cui incontrarsi e discutere portando avanti battaglie.
Era chiaro anche negli anni ‘90 quando, sulla carta, uomini e donne dei Paesi occidentali dovevano avere pari diritti e pari opportunità, al punto che si parlava di società post-femminista. Sulla carta, appunto, perché le discriminazioni nel mondo del lavoro non erano affatto scomparse e riaccendevano discussioni sul divario salariale, sulle difficoltà e limitazioni per le donne di poter intraprendere una scala carrieristica, e sull’istituzione di una legislazione contro le molestie sul lavoro.
Dovevamo e dobbiamo capire che non hanno capito, o piuttosto non vogliono, o fanno finta di non capire che il lavoro, prima ancora che sostegno economico, è la principale fonte di sostegno psicologico e, quando svolto con passione e determinazione, rappresenta la piena espressione del sé, sostiene indipendenza e autostima.
Abbiamo, per forza di cose, capito che la strada è ancora lunga, che ci sono ancora fiumi di parole, alla Jalisse, da spendere prima che l’occupazione femminile non sia più un miraggio, prima che si annulli l’ipotesi che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Abbiamo capito a sufficienza cosa manca davvero perché non si venga escluse dal mercato del lavoro, che basterebbero politiche del lavoro corrette, sostegno, buonsenso e flessibilità e potremmo avere – perché la volontà alle donne non manca – tutti qualcosa in più: la botte piena, la moglie ubriaca e l’uva nella vigna.
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