
INVIDIA . Lector In Invidia
Ego te absolvo a peccatis tuis
In 17 Settembre 2017 da Attilia Patri DP«Almeno 400 tra bambini e neonati sarebbero morti tra il 1864 e il 1981 nell’ex orfanotrofio scozzese Smyllum Park gestito da suore cattoliche: i loro corpi sarebbero stati sepolti in una fossa comune anonima. È quanto emerge, riportano i media britannici, da un’indagine del programma “File on Four” di BBC Radio 4 e del domenicale “Sunday Post» (tg24.sky.it).
Questa la notizia che, tra domenica e lunedì, si è fatta largo tra tanta cronaca nazionale e internazionale. Notizia che potrebbe, a una prima lettura, non sembrare nemmeno lontanamente una notizia, uno scoop, se cominciamo a fare il conto degli anni, 115, dividiamo il numero dei bambini per l’intervallo di tempo ottenuto, 3,47 bambini all’anno, contestualizziamo gli anni nel loro periodo storico di scorrimento che ha visto avvicendarsi due guerre mondiali, epidemie come la spagnola e malattie quali la polmonite, la tubercolosi, la febbre scarlatta, altrettanto devastanti in periodi di carenze igienico-sanitarie, malnutrizione e miseria diffusa.
Può non sembrare una notizia se pensiamo, ricordando Cronin e Dickens, che la possibilità di vita dei bambini soli, orfani o abbandonati, fuori dagli istituti non era molto diversa se costretti a lavorare dall’età di sette anni nelle miniere di carbone o se ammettiamo che maltrattamenti, bullismo e condizioni di vita dura erano comuni in tutti gli orfanotrofi, anche quelli gestiti da enti pubblici o dalle fondazioni di carità protestanti.
E ancor più non fa notizia se diamo per scontato, perché scontato è, che si muore ovunque e, quindi, anche negli orfanotrofi e che, trattandosi di orfani o bambini abbandonati, nessuno poteva o voleva farsi carico di una sepoltura più degna di una fossa comune.
E, invece, la notizia fa notizia perché, nel 2003, grazie alla denuncia pubblica di due ex ospiti, Smyllum Park era già finito nel mirino per presunti abusi su bambini, con l’ex Primo Ministro scozzese Jack McCollum che si scusava con le vittime e, oggi, chiede che «dopo tanti anni di silenzio si sappia la verità, perché spezza il cuore vedere così tanti bambini sepolti senza un nome».
Fa notizia perché le Suore della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, l’ordine che gestiva l’istituto, avevano già ammesso la sepoltura di 158 bambini mentre, oggi, si è scoperto che i numeri sono ben altri. Fa notizia perché in un cimitero ordinato, con lapidi che ricordano suore e membri del personale dell’orfanotrofio, nessun monumento commemorativo o identificativo contrassegna quella terra di nessuno dove sono stati seppelliti, alla bell’e meglio, i piccoli corpi; non c’è traccia di nomi e cognomi, né registri a ricordarne l’identità, nessuna iscrizione che indichi l’uso di quell’area in modo che un avventore possa fermarsi e farsi il segno della Croce. Nulla di nulla. Solo una sepoltura collettiva, interrati gli uni sugli altri, di spettri passati per quelle mura chiuse ormai da trentasei anni ma che, in oltre un secolo di attività, si calcola abbiano ospitato circa 11.600 figli di nessuno infliggendo loro, talvolta, anche abusi fisici e psicologici.
Fa notizia perché quelle fosse sembrano un’abitudine consolidata e generano il sospetto di voler nascondere le tracce di quella diffusa malnutrizione tra malattie, miseria e trattamenti non sempre consoni, che porta a corredo, inevitabilmente, un elevato tasso di mortalità e fa supporre che questo sia stato, storicamente, il destino di tanti ospiti di strutture di accoglienza ispirate, a parole, alla carità cristiana. Un destino contro cui si leva, ora, il grido di piccoli fantasmi riemersi. Un destino contro cui si indigna l’intera Scozia dimenticando di essere figlia di quella società che, nel passato, non poteva non immaginare quello che succedeva all’interno di certe case protette che, alla stregua di lager, ripulivano le strade da quello che, per i benpensanti dell’epoca, dovevano apparire come poco più di rifiuti da mandare al macero: un orfano non sarebbe mai entrato in orfanotrofio se non fosse stato costretto; neanche il più sprovveduto poteva pensare che, oltre quei cancelli, ci fosse un villaggio vacanze.
Fa notizia perché si eleva un grido che, pur morendo in gola, è capace di far rumore e fa eco all’analogo caso emerso a marzo in Irlanda a Tuam, dove, in un ex orfanotrofio cattolico, si era scoperta l’esistenza di una fossa comune con i resti di 800 bambini di età compresa, stando ai test del DNA, tra le 35 settimane e i 3 anni deceduti nel periodo di attività del centro, quindi tra il 1925 e il 1961, ma soprattutto durante gli anni ‘50. La vicenda, già denunciata da una storica locale, Catherine Corles, era diventata pubblica dopo il lavoro svolto da una commissione d’inchiesta – sollecitata dall’ONU attraverso il Comitato contro la tortura – sulle case per ragazze madri gestite da suore, luoghi dove venivano ospitate le donne che avevano avuto figli al di fuori del matrimonio, i loro bambini e anche molti orfani. Il conseguente mea culpa della Chiesa cattolica irlandese aveva, poi, favorito una certa trasparenza su fatti e misfatti accaduti. Quella di Tuam non era l’unica struttura del genere in funzione in quegli anni ma se ne contavano almeno una decina in tutta l’Irlanda e avevano accolto circa 35.000 donne incinte non sposate. Le case, operative in Irlanda dal 1765, erano state dichiarate fuorilegge nel 1978 ma l’ultima ha chiuso i battenti solo nel 1996.
Sorte con lo scopo di riabilitare ad un lavoro le ex prostitute durante il XIX secolo, tali case avevano il fine, in un primo momento, di fungere principalmente come ricoveri temporanei nei quali alle donne che non avevano più intenzione di vivere per strada veniva offerta l’opportunità di imparare un lavoro e di essere aiutate a trovare un impiego che, senza una tutela del genere, certamente sarebbe stato loro negato.
Passate sotto l’amministrazione e la tutela della Chiesa cattolica, non ci volle molto perché gli istituti virassero i loro nobili intenti e si trasformassero in luoghi, per lo più lavanderie, in cui finivano la propria vita donne che, semplicemente, non risultavano accettabili dalla rigida società irlandese, donne spesso ripudiate dalle famiglie d’origine perché bollate dal marchio infamante del disonore anche quando il disonore portava i segni della violenza per stupro. Ci si finiva anche per motivi più banali come l’essere troppo brutte o troppo belle e con troppi corteggiatori, mentre si era candidate naturali se ragazze madri o se si avesse consumato un fanciullesco ma “peccaminoso” amore prematrimoniale che minava la loro reputazione inesorabilmente.
Ci si finiva come peccatrici e, perciò, meritevoli di essere isolate da una società onesta e lavoratrice. Ci si finiva come reiette di un giudizio o di un pregiudizio. Ci si finiva come Maggies – diminutivo di Magdalene dal nome delle case – segregate con il divieto di avere contatti con il mondo esterno o di vedere i propri figli e con un solo compito: lavare per quindici ore al giorno con soda, sale e acqua bollente per 364 giorni all’anno, Natale escluso, con il capo rasato e senza ricevere alcun salario. Ci si finiva diventando un affare economico importante per chi dirigeva l’istituto dal momento che i compensi alla struttura arrivavano non solo da privati ma anche dallo stesso Stato irlandese che lì si faceva lavare lenzuola e abiti di esercito, ospedali, carceri, ricompensando, però, le “donne perdute” con un vitto magro. La salvezza delle anime delle penitenti era, di fatto, una forma mascherata di schiavitù esercitata nelle trappole di conventi diventati sempre più lavanderie industriali, le Magdalene Laundries, in grado di acquistare, nel tempo, ingenti patrimoni immobiliari. Si finiva lavandaie come metafora di una pulizia dell’anima che doveva essere redenta con acqua ustionante e soda elevate al rango di acqua benedetta da una società preda del fanatismo religioso nella quale tutti sapevano e tutti tacevano. Ci si purificava ancor più se, oltre le inaccettabili fatiche, si diventava oggetto preferito e selezionato per aggiuntive torture fisiche, psicologiche e abusi sessuali con sottofondo di preghiere. Si finiva lavandaie, degradate dal presunto peccato, ultime di fronte a Dio e ai perbenisti, immorali e, dunque, “onorate” con la giusta punizione che giusta non era ma si faceva passare come l’unica possibile; si faceva passare per “la normalità”. Nonostante l’intervento dell’ONU, le inchieste e le denunce in atto dal 1993, le ingiustizie e i soprusi subiti dalle Maggies sono ancora impuniti, a volte neanche denunciati perché per paura, per rassegnazione, per abbandono familiare le donne sapevano, ormai, vivere solo lì, perché quel lì era pur sempre l’unica possibilità che era stata loro concessa. Donne allontanate dal proprio sé, talmente annullate da non saper più divincolarsi dall’orrore che le ha comunque mantenute in una qualche forma di vita; donne per le quali il rapporto vittima-carnefice è l’unico certo; donne con un unico comune denominatore: la vergogna e il riserbo.
Fa notizia se ci si ricollega a due film-denuncia che, riportando storie vere di donne, hanno consentito alla platea mondiale di avere almeno l’idea di cosa si celasse, realmente, dietro a certi cancelli custoditi da benedetti veli di suore.
Magdalene del 2002 per la regia di Peter Muller e premiato con il Leone d’oro a Venezia, si ispira al documentario “Sex in a Cold Climate” del 1998 ad opera di Steve Humphries. Il film è ambientato nel 1964, quindi in tempi recentissimi, ed è incentrato sulle esperienze di Margaret (violentata da un cugino durante un matrimonio), di Bernadette (orfana, attraente e civettuola che suscita l’attenzione dei ragazzi), di Rose (ragazza-madre). Le tre donne, rinchiuse nel convento per espiare i loro “peccati”, sperimenteranno sulla propria pelle, insieme alle altre compagne, il bigottismo ipocrita e disumano di un mondo cattolico estremista, saranno vittime di dogmi esacerbati, di un concetto di fede che ha trasformato un Credo in una ideologia tendente al fanatismo.
Philomena del 2013 per la regia di Stephen Frears, premiato con il David di Donatello come miglior film europeo e altri riconoscimenti, è tratto da una storia vera raccontata anche nel libro “The lost Child of Philomena Lee” di Martin Sixmith. La storia inizia nel 1952 quando una ragazza sempliciotta si fa “tirar giù le mutandine da un ragazzo divertente e bellissimo” mentre attorno riecheggiano, frastornanti, i rumori di un luna park. Incinta, giovane, ingenua e senza cognizione dei fatti della vita, viene bollata dalla società come “donna perduta” e rinchiusa nel convento di Roscrea dove, con il duro lavoro di lavandaia e le mortificazioni continue, compenserà il suo mantenimento, il parto e il mantenimento del figlio Anthony fino all’età di tre anni, quando verrà venduto, senza la sua volontà, ad una facoltosa coppia cattolica americana – come è accaduto, in quegli anni, per circa 4.000 “figli del peccato”. Uscita dal convento passerà l’intera esistenza nella ricerca del figlio mentre, oltreoceano, Anthony farà altrettanto, ma senza esito. Solo in piena maturità, e con l’aiuto di un giornalista, Philomena verrà a conoscenza che il figlio l’aveva più volte cercata presso le suore di Roscrea e che lì Anthony, Michael per la famiglia adottiva, morto di AIDS, aveva voluto fossero seppellite le sue ceneri. Lì dove tutto era cominciato. Philomena può chiudere, così, il cerchio della sua vita; vita accompagnata da una grande fede nonostante tutto, nonostante durante la sua ricerca venissero portati alla luce segreti, menzogne, ipocrisie e soprusi occultati per anni, nonostante gli ostacoli frapposti dall’istituzione religiosa tra lei e il desiderio di ritrovare suo figlio, ostacoli tanto cortesi quanto depistanti.
Philomena, benché reclusa e prigioniera di un destino manovrato da donne e uomini di Chiesa, non confonde Dio con coloro che hanno, talvolta, la pretesa – sotto forma di potere prevaricatore e assoluto – di rappresentarlo. Philomena non si autocommisera ma sa di essere un dramma non solo individuale ma anche sociale: l’uscita del libro e del film hanno spinto altre donne, nella stessa condizione della protagonista, a trovare il coraggio di raccontare la loro storia personale più tremenda fatta di soprusi di stampo medievale imperanti fino al 1996.
In Irlanda Philomena Lee, insieme a sua figlia e con la collaborazione di Adoption Rights Alliance, ha dato vita a “Philomena Project” con la triplice missione di: aiutare con campagne di sensibilizzazione, sostegno, servizi e aiuti finanziari le donne che finora non sono riuscite, o sono state ostacolate, a cercare i figli strappati e dati in adozioni forzose e illegali; assistere i bambini adottati ormai adulti – soprattutto quelli che sono stati portati negli Stati Uniti – a ritrovare le loro madri, padri e famiglie allargate naturali, ottenere i certificati di nascita originali e gli altri eventuali documenti; organizzare una campagna di sensibilizzazione per l’apertura degli archivi attraverso azioni di lobbyng sui politici irlandesi e sugli organismi internazionali quali le Nazioni Unite.
La notizia si fa notizia nell’ottica di tutto questo e in attesa di altre indagini previste in Scozia a partire da novembre prossimo.
La notizia si fa notizia e denuncia senza voler rinnegare quanto altri ordini, altri conventi, congregazioni, istituti, in contesti diversi, abbiano fatto di positivo per le ragazze madri, gli orfani e i disagiati in generale.
Non si vuole condannare la Chiesa cattolica in generale per partito preso, ma si condannano quelle donne e uomini che, in nome di Dio, della Chiesa e della moralità presunta si sono fatti giudici e aguzzini dei loro simili snaturando il secondo comandamento.
La notizia si fa notizia in bilico tra:
«Sarei disposta a commettere qualunque peccato pur di uscire da questo posto» – Magdalene
«Io ti perdono» – Philomena
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