INVIDIA . Lector In Invidia
Il tempo, i giorni, i segni
In 26 Luglio 2018 da Attilia Patri DPSi torna a parlare di Fiat, di cambi ai vertici, di Sergio Marchionne. Se ne torna a parlare nel bene e nel male.
L’attualità guarda avanti, al poi che viene, ma un certo pensiero nostalgico non può fare a meno di compiere un passo indietro, agli anni in cui Fiat rappresentava e sottolineava un Paese che stava facendo i conti con un certo benessere economico generale, una ripresa di possibilità per tutti, solleticava la realizzazione di sogni a buon mercato agli italiani con stipendi medi, garantiva che anche la classe operaia potesse entrare in paradiso, quel paradiso rappresentato dalle concessionarie auto, creava nelle famiglie quelle esigenze di svago domenicale da realizzare su quattro ruote con la gitarella al mare, stuzzicava una diversa e più consona imprenditoria automunendo gli artigiani.
Erano gli anni tra il ‘60 e il ‘70, il decennio del cambiamento non solo a livello di economia individuale ma anche mentale con quell’ottica differente verso un futuro che sembrava non solo possibile ma anche concretamente fruibile: a denti alti o stretti, secondo capacità, possibilità, aspirazioni, si poteva mordere un domani migliore. Erano gli anni della mobilità su quattro ruote a portata di stipendio e, quando non era proprio alla portata, ci pensava la Sava, con il pagamento rateale, ad offrire il sogno sul vassoio dell’offerta un tot al mese per ics mesi e, mentre si firmavano i contratti di proprietà, le autostrade disegnavano, in lungo e in largo, la loro rete man mano sempre più incisiva sul territorio. Spostarsi in autonomia sembrava essere il vessillo di un nuovo modo di essere e di rappresentarsi. Erano gli anni della 600 e della 500.
Icona del boom economico, la 600 fu presentata per la prima volta il 9 marzo del 1955 nel Palazzo delle Esposizioni di Ginevra; in produzione fino al 1969 fu sostituita, successivamente, dalla Fiat 850. Dotata di due portiere incernierate posteriormente – al vento, in gergo – e con un’abitabilità discreta per quattro persone, arrivava ai 95 Km/h al prezzo di listino di 590.000 lire. Nata come vettura popolare, ebbe un successo di vendita straordinario, raggiungendo tempi di attesa per la consegna superiori all’anno. Gli elementi strategici che ne decretarono il successo erano da ricercarsi nel prezzo molto competitivo ma non stracciato, nella buona dotazione di serie e nella qualità delle prestazioni pur montando un piccolo motore, nei bassi costi di gestione: 14 Km con un litro e una potenza fiscale di 9 CV che comportavano una tassa di circolazione di sole 10.000 lire.
La RAI che, all’epoca, non faceva pubblicità televisiva, per la presentazione della vettura trasmise un cortometraggio sulla macchina nuova preparato da Cinefiat e ricordato negli annali come un impeccabile esempio di pubblicità redazionale.
Altrettanto successo riportò la successiva versione Multipla, a quattro porte, in cui l’abitabilità notevolmente ampliata raggiungeva i sei posti su tre file di sedili. Gli schienali e le poltrone posteriori potevano essere facilmente abbattuti per formare un’ampia e complanare superficie di carico. Inutile dire che incontrò il favore incondizionato degli artigiani, dei fornitori, dei taxisti e delle famiglie numerose.
La 500 fu progettata e prodotta, più o meno in contemporanea con la 600, pensando all’enorme bacino di potenziale clientela che, nonostante il diffuso ottimismo generato dal miracolo economico, poteva contare solo su un modesto bilancio continuando a preferire le motociclette dal costo più abbordabile. Pensando a questo target, l’auto commissionata da Vittorio Valletta all’ingegner Dante Giacosa, doveva rappresentare la super utilitaria per eccellenza con costi di acquisto, uso e manutenzione compatibili con le modeste possibilità delle famiglie italiane meno abbienti.
Ispirata nelle forme al celebre Maggiolino, presentava tatticamente il padiglione posteriore basso per scoraggiare il trasporto di altri due passeggeri – che sarebbe andato a scapito, secondo la FIAT, del successo di vendite della 600 – e un allestimento che si presentava davvero molto spartano, anche per l’epoca, mancando soprattutto le cromature, tanto amate in quegli anni dagli italiani e riportando, perciò, inizialmente un tiepido successo. Vennero in successione allestite diverse versioni fino alla produzione della 500L, nell’agosto 1968, più confortevole e rifinita: sedili reclinabili di serie, rivestimento del pavimento in moquette, plancia ricoperta da plastica nera, cruscotto nero, volante a razze, tasche portaoggetti inserite nei pannelli degli sportelli e vaschetta portaoggetti davanti alla leva del cambio al prezzo finale di 525.000 lire. Ne furono prodotti 5.231.518 esemplari diventando, di fatto, la macchina per i giovani e rimanendo in perenne competizione con le auto straniere di concezione simile: la Citroën 2CV e il Maggiolino Volkswagen, mentre alla Fiat 600 rimaneva il ruolo principale di auto per famiglie.
La fine del decennio si avvicinava portando nell’aria la scia di rumori non solo di auto e di clacson ma anche di musiche alte e nuove che riempivano radio e dischi in vinile consumati dalle puntine di giradischi nelle feste in casa organizzate, possibilmente, senza genitori nei paraggi; rumori di cortei che terminavano la loro sfilata vibrante e vociante nelle piazze, o davanti alle fabbriche o, ancora, nei cortili delle università; era il rumore della nuova protesta, era l’appartenenza e il sostegno a idee che da tempo bruciavano e trovavano in quel periodo sfogo, se non una vera e propria esplosione. Era il rumore del voler esserci nella speranza di poter muovere, o smuovere, quello che sembrava stagnante, era la musica del cambiamento fatto di slogan storici identificativi di un’epoca in subbuglio che, se da una parte tanto ha ottenuto dall’altra è naufragata nell’utopia di pensieri irrealizzabili. Era rumore e movimento giovane, indipendentemente dall’età, contro tutto e tutti: finiva lo stato di torpore pseudo melodico, si guardava all’estero, ci si sbilanciava verso una cultura diversa, verso gusti e mode che sembravano di avanguardia: i capelli lunghi dei ragazzi e delle ragazze, i pantaloni a zampa, la camicia a fiorellini, il cinturone portato a vita bassa, un po’ di aria vissuta disegnata in faccia per far capire da che parte si stava, erano la bandiera della modernità in opposizione alla mentalità matusa dell’adulto immobile e che si accontentava dello stato delle cose, dell’inerzia. Si era un po’ tutti figli dei fiori anche nel nostro piccolo. La provincia sonnolenta guardava alle grandi città come il territorio dell’azione, e imparava a conoscere dalla stampa e dai Tg in bianco e nero i nomi della contestazione in atto. Vista con lo sguardo di adesso la provincia era un buffo tentativo di omologazione verso i modelli avanzati e inarrivabili di Milano, Torino, Roma; visto allora, anche il paese più piccolo era comunque in preda alla febbre del ‘68, l’anno degli anni, l’anno del culmine delle proteste, di leggi vetuste scosse e modificate o vergini di emanazione, per una vita di scelte sociali migliori e ufficialmente libere. Cambiava musica in tutto: raduno e partecipazione i nuovi comandamenti sociali, il fremito la linfa vitale e il segno di appartenenza, l’opposizione il carattere distintivo da portare all’occhiello.
Pace, amore e libertà rappresentarono, nel periodo, il frullato utopistico da trangugiare convinti, raggiungendo il picco esponenziale nell’estate calda del 1969: l’estate di Woodstock.
Woodstock, una parabola dal 15 al 18 agosto, che racchiuse un popolo di 500.000 persone identificato dall’insieme, per la prima volta, di appartenenti a quei movimenti giovanili costituiti dagli Hippy e dai Free Speech Movement dei quale oggi sorridere ma che, allora, erano emergenti e forti nei loro valori e ideali. Per chi lo visse fu qualcosa di bello e, soprattutto, nuovo: tutti giovani, insieme, senza regole preordinate se non quelle del momento e della situazione contingente, musica fantastica dalle cinque del pomeriggio e, ininterrotta, fino alle nove del mattino; energia, emozione, il presente col profumo di futuro possibile mentre non si vedeva tregua alla guerra in Vietnam e l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy aveva lasciato segni profondi.
Non mancarono di circolare marijuana ed Lsd ma, ciò nonostante, e a onor del vero, non si registrarono risse o incidenti particolari, episodi di violenza o di criminalità.
Giorni che dovevano inizialmente essere tre, ma che divennero quattro, di pace, amore e musica a ingresso libero. Quattro giorni di suoni che costituirono un evento storico epocale influenzando l’immaginario collettivo di intere generazioni di giovani e che lasciarono in eredità miti, leggende e narrazioni.
Woodstock che, già nel nome, era una bugia, un’illusione che si sarebbe frantumata presto, perché, in realtà, il gigantesco e iconico festival si svolse a circa una settantina di chilometri più in là – a Bethel, in aperta campagna, sugli acri di un allevatore, Max Yasgur – dal momento che gli abitanti cacciarono gli organizzatori non volendo aver nulla a che fare con una marea di gentaglia proveniente da ogni dove per ascoltare quella rumorosità che si chiamava Rock.
Eppure il Rock, con le sue forme originali e inaudite, era calamita dei tempi, sintesi indiscussa di novità e modernità; era filosofia di vita, era il linguaggio della rivoluzione tra versi magnifici, anche se irregolari, e artisti alla stregua di evangelizzatori di massa; era il nuovo mondo nomade, anarchico, sordo ad ogni autorità.
L’immane raduno fotografò un momento importante di creatività musicale, la fase post Beatles, con un cast di tutto rispetto anche se non completo per l’epoca: Santana, gli Who, Crosby Stills Nash & Young, Joan Baez, Joe Cocker, Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, i Creedence Clearwater Revival, e molti altri – in tutto trentadue musicisti – pur mancando Bob Dylan (infortunato), i Led Zeppelin, i Doors e gli Stones.
Certamente alla creazione del mito Woodstock contribuì la musica ma soprattutto tutto l’insieme: il muro di folla, le migliaia di persone bloccate nel traffico in attesa pacifica suonando le chitarre, i tuffi nel fango dopo il temporale della domenica pomeriggio, i bagni collettivi nel lago completamente nudi. Le foto di quei momenti rappresentano decenni di controcultura repressi da un’intera generazione e finalmente scaricati con forza ed energia liberatoria.
Quattro giorni che cambiarono la storia della musica ma non il mondo. Come del resto era prevedibile.
Di Woodstock resta un museo, resta il ricordo dell’apice delle utopie di una generazione, di una rivoluzione sbriciolata come si sbriciola un sogno al risveglio, un’opera immateriale, un’idea lasciata ai posteri. Tredici dollari per l’ingresso al museo, se capita di passare di là, a nord di New York. Ma Woodstock fu, comunque, quella volta. La prima volta. L’unica volta. Irripetibile. Estrema.
Woodstock ha lasciato un segno nel tempo. Tempo andato e solo nostalgico. Tempo che vorrei ricordare con queste parole: “La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il tempo, il nostro tempo” – Sergio Marchionne, slogan per lo spot della Nuova Fiat 500, 4 luglio 2007.
Per ritornare al punto di inizio, guardando avanti.
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