INVIDIA . Lector In Invidia
Naufragando sotto la tempesta
In 7 Marzo 2019 da Attilia Patri DPOtello, Amleto, Shakespeare e le grandi tragedie da palcoscenico teatrale.
Una soverchiante tempesta emotiva e passionale, la tragedia raccolta e raccontata dall’attualità.
L’attualità e il suo palcoscenico con i suoi teatranti, ognuno compresso nella propria parte da recitare fino in fondo e al meglio: un ricorso in Appello, un assassino contrito, un avvocato difensore che gioca le proprie carte, una corte che matematicamente fa calcoli e stabilisce la pena finale.
L’omicida di una donna, uno dei tanti, per i quali sarebbe auspicabile un fine pena mai e che invece si avvale dell’istituzione del Rito Abbreviato: trent’anni di carcere al massimo in primo grado. Poi si va in Appello e si rilanciano le attenuanti generiche dell’uomo – le infelici esperienze di vita, i trascorsi difficili, l’aver tentato per due volte il suicidio, l’essere stato in cura in un centro di igiene mentale, un matrimonio fallito, una relazione fatta di tradimenti prima di conoscere la nuova compagna, l’essere incensurato, l’aver confessato, l’aver cominciato a pagare la provvisionale di risarcimento alla figlia minorenne della vittima – il tutto corroborato e col sottofondo di questa tempesta che determinano un bonus di sconto pena di sei anni. Ecco che dai trenta iniziali di carcere si passa ai ventiquattro e, con la riduzione prevista di un terzo, fatalmente si approda ai sedici anni di reclusione. Francamente una miseria.
Succede a Bologna e succede ovunque ci sia un processo di questo tipo: diritto e matematica in reciproco scambio nella lista infinita di processi per femminicidio. Femminicidi che sembrano seguire sempre la stessa orchestrazione, le stesse motivazioni, le stesse modalità di esecuzione, in nome di un amore che amore non è, e che confonde la gelosia con il possesso più barbaro.
Una soverchiante tempesta emotiva e passionale è il nuovo lessico che scalza l’ormai vetusto raptus. Il raptus, il fuori controllo inarrestabile, la rabbia che diventa nebbia, il furore che si fa accanimento. Il raptus che spegne l’altrui respiro. Il raptus, la colpa giustificata.
La tempesta emotiva e passionale, la colpa giustificata, ma con tutta un’altra musicalità rispetto al raptus, al forte stress, una eco da Via col Vento, un solleticare un che di romantico se non quasi mistico: un’ineluttabilità l’aver perso la testa.
A Shakespeare, probabilmente, il termine sarebbe piaciuto. Magari ne avrebbe utilizzato la base per comporre un’altra opera: Olga.
Ma ad Olga certamente il termine non piacerebbe, e non può piacere ai suoi familiari. Non piace neanche a noi che non cerchiamo parole che giustifichino il femminicidio e la violenza di genere, perché non solo non ci dovrebbero essere parole, ma neanche giustificazioni.
La sentenza con le sue motivazioni suggestive sembra spostare indietro le lancette della giustizia italiana, all’epoca del romanzo Un delitto d’onore, di Giovanni Arpino con quel racconto delle ambizioni, del malinteso concetto di onore, della violenza delle norme giuridiche. Dovremmo prendere le distanze dalle vicende di quel signorotto di provincia, Gaetano Castiglia, che, contro il parere della madre, decide di sposare Sabina, una giovane popolana incolta, e farne una signora capace di essere accettata non solo dal clan familiare del marito, ma anche dalla ristretta società-bene che vi gravita attorno. Sospetti, orgoglio, pregiudizi, frustrazioni si faranno largo nella mente dell’uomo già durante la prima notte di nozze dando via ad un crescendo drammatico che troverà tregua, soddisfazione, pace, solo con il delitto d’onore.
“… non dovremo neppure allontanarci, per rispetto a noi stessi, da quelle che sono le nostre più intime convinzioni: cioè che questo è un delitto, sì, ma nato per una forza sana della natura, terribile come un’esplosione vulcanica, ma tradizionale, insopprimibile, a suo modo santa…” dirà l’avvocato Russo difensore di Gaetano Castiglia.
Giovanni Arpino racconta la provincia e la sua comunità fatta di voci, sguardi circospetti, tradizioni che diventano terreno fertile per l’ingiustizia sociale: l’onore, il possesso esclusivo, lavato col sangue in anni in cui il Codice Penale non solo non tutelava la donna, ma tollerava la violenza profusa delle botte con il beneplacito dello jus corrigendi, ovvero il potere educativo e correttivo dell’uomo sulla donna, puniva unicamente l’adulterio femminile, riteneva il delitto d’onore ampiamente giustificabile per cancellare l’onta di un tradimento e, in caso di stupro, considerava il matrimonio riparatore il solo e necessario metodo di risarcimento morale.
Il romanzo, in ristampa fino all’ottava edizione e diffuso a livello mondiale, ispirò, l’anno dopo, nel 1961, l’uscita del film Divorzio all’italiana di Pietro Germi che adattò e trasformò la narrazione di Arpino in un ironico e graffiante ritratto di una certa mentalità della Sicilia di provincia e, più in generale, in un vero e proprio attacco pungente e sarcastico all’arretratezza legislativa italiana per la mancanza di una legge sul divorzio (bisognerà aspettare il 1970, nove anni dopo) e per l’anacronistico articolo 587 che regolava il delitto d’onore (abrogato solo nel 1981, vent’anni dopo).
La commedia, per quanto divertente, puntò il dito sull’ipocrisia e sui formalismi della società e si propose come una feroce condanna al codice d’onore dipingendo, nello scorrere della pellicola, un ritratto lucido, impietoso, grottesco ma non troppo, fondamentalmente veritiero, dei costumi e della moralità di un’epoca della storia del nostro Paese.
“Ad Agromonte la lettera anonima è una forma di prezioso artigianato: si comincia da bambini con i fogli di quaderno, fino ad arrivare ad esemplari pregiati, vergati da mani maestre” – il Barone Ferdinando Cefalù, Fefè
A reggere la trama un eccezionale Mastroianni nei panni del barone Fefè, impomatato, meschino e pieno di tic, che induce la moglie Rosalia (una imbruttita Daniela Rocca) al tradimento per poterla uccidere e risposare, così, Angela (una giovanissima Stefania Sandrelli), tra paradossi del gallismo italico, dialoghi salaci, e una legge che vieta il divorzio ma tollera e assolve con pena lieve il delitto d’onore. Il delitto d’onore, quindi, come espediente, un malcostume, a cui ricorrere per fuggire da matrimoni infelici.
Il film riscosse un successo assoluto: Premio Oscar® per la miglior sceneggiatura originale, Golden Globe per il miglior film straniero, Premio per la miglior commedia al Festival di Cannes.
Tra gli altri meriti, la pellicola ispirò l’espressione Commedia all’italiana per indicare gran parte della produzione cinematografica italiana degli anni Sessanta e Settanta che ha reso il cinema italiano famoso nel mondo.
A seguito di Divorzio all’italiana vennero prodotti altri film con tematiche di denuncia: Sedotta e abbandonata (1964) sempre di Pietro Germi, La ragazza con la pistola (1968) diretto da Mario Monicelli, La moglie più bella (1970) di Damiano Damiani, Pasqualino Settebellezze (1976) di Lina Wertmuller.
Film che coprono un arco temporale durante il quale si sviluppa il processo di modernizzazione dei costumi nazionali, si assiste alla trasformazione di un Paese da rurale a potenza industriale, i giovani cominciano a ribellarsi al conformismo delle precedenti generazioni e le donne si liberano di molti tabù sessuali, il divorzio vede finalmente la luce e si riforma il diritto di famiglia. Un’onda di cambiamento totale e inarrestabile che approderà negli anni Ottanta rivelando un’Italia con un volto nuovo al punto che, nel 1981, dopo il referendum sull’aborto, verrà abrogato l’art. 587 del Codice Penale ormai in stridente contraddizione con i diritti civili conquistati.
Abrogato l’articolo che recitava così:
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni.
Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo”
Era il 1981. Nel 2019 una sentenza reciterà, a discolpa di un femminicidio, e creando un precedente quanto mai discutibile: Una soverchiante tempesta emotiva e passionale. Ha il sapore di un refugium peccatorum, per chi cercasse una scusa.
A tutte e a tutti: un buon 8 marzo!
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