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Il capitone
In 24 Dicembre 2018 da Gianluca PapadiaIl Natale a Napoli è ancora molto legato alle antiche tradizioni. Poco importa se Babbo Natale è scandinavo ed è uscito dalla campagna pubblicitaria di una bibita gassata americana, se i panettoni arrivano nei supermercati a Novembre, se a qualcuno salterà in mente di mettere lo zenzero nella menesta ‘mmaretata, se sono sempre di meno quelli che fanno il presepe o se qualche seguace di Masterchef servirà il sushi al posto dell’insalata di polpo. A Natale, a Napoli, va in scena la vera tradizione partenopea. Sì, lo so cosa state pensando ma, credetemi, la statuetta di Hitler tra i pastori di San Gregorio Armeno è stato solo un incidente di percorso, un eccesso di protagonismo di un artigiano social-dipendente. Le tradizioni a Napoli resistono ancora, nonostante il progresso. Un’usanza di cui farei sicuramente a meno, però, è quella di cucinare dei pesci che non hanno nulla a che fare con la nostra tradizione ma che a Natale non mancano mai: i capitoni. Veri e propri serpenti di mare che, essendo originari delle lagune venete, non fanno parte della nostra alimentazione quotidiana. A Natale però, le pescherie di Napoli si attrezzano con delle piscine olimpioniche esterne pur di mettere bene in mostra questi ripugnanti esseri. Il capitone è la femmina dell’anguilla, e il suo nome deriva dal fatto che ha la testa più grande del maschio. Aldilà di tutte le credenze popolari, una spiegazione agnostica di questo fenomeno sostiene che il capitone è entrato nella nostra tradizione perché è un alimento molto grasso e allo stesso tempo a buon mercato. Quello che molti napoletani non sanno è che l’anguilla è molto resistente all’inquinamento. Infatti è una delle poche specie che si trovano ancora alla foce Sarno, uno dei fiumi più inquinati di Europa.
Il capitone a Napoli – come da tradizione – si compra almeno una settimana prima.
«Sennò, sai sotto Natale quanto costa?» ripete mia nonna, ogni anno.
Così, giusto una settimana fa, siamo andati in giro di perlustrazione al mercato del pesce. Mia nonna finge di non sapere che questi viscidi animali arrivano tutti dalla Valle di Comacchio e ogni anno mi costringe a ispezionare tutte le vasche alla ricerca del capitone giusto. «Giusto poi per cosa?» sono tentato di chiederle ogni volta. Farà comunque la fine dello zampone con le lenticchie a Capodanno, dei broccoli di Natale, dell’insalata di rinforzo e del baccalà fritto che nessuno mangia. Sono quei piatti che non possono mancare, ma che puntualmente saranno destinati a vecchi ultranovantenni con una demenza senile in stato troppo avanzato per ribellarsi.
«Nonna, hai deciso? Tanto nessuno se lo mangia sto coso fritto» le ho detto quando avevamo ormai visionato la ventesima piscina piena di serpenti neri.
«Il giorno dopo è più buono ancora. Nonna lo mette sotto aceto. A Elenuccia piace tantissimo». Elena è sua sorella zitella e il fatto che non sia in grado di parlare dal 2005, è solo un dettaglio. Mia nonna la capisce solo con uno sguardo.
Al ventunesimo bancone del pesce, ho capito che finalmente l’avevamo trovato. La caccia era finita ma il momento più difficile doveva ancora arrivare. In una piscina con più di duemila esemplari – tutti uguali – mia nonna avrebbe dovuto far capire al povero pescivendolo qual era il prescelto. Come ogni anno, il pescivendolo, ignaro di tutto, ha pescato un capitone qualunque e, mentre lo stava riponendo nella busta, mia nonna gli ha urlato: «Giovanotto, io, veramente, volevo quello», indicando la vasca alle sue spalle. Il giovane commerciante ha abbozzato una risata, poi, vedendo che mia nonna non stava scherzando, mi ha guardato perplesso, per capire se la vecchia avesse tutte le rotelle a posto. Io, vigliaccamente, ho guardato da un’altra parte lasciandolo solo con il suo destino. Dopo aver inseguito diversi esemplari, il pescivendolo – ormai esausto e completamente bagnato – è riuscito a pescare quello giusto, l’ha riposto in una busta piena d’acqua, e me l’ha consegnato con uno sguardo pieno d’odio. Io ho afferrato con due dita quella busta puzzolente e sono uscito dal mercato a passo svelto.
Un’usanza barbara prevede che il capitone sia ucciso solo pochi minuti prima della cottura e quindi – anche quest’anno – questo schifosissimo vertebrato acquatico ha trovato alloggio nella vasca da bagno di casa nostra. Mia mamma è una settimana che va in bagno dalla vicina perché a lei il capitone fa impressione. Mia nonna si è presa cura di lui sfamandolo come se fosse un pesciolino rosso. Gli ha preparato tutti i giorni dei pastoni di gamberetti e carne macinata. Ogni giorno gli cambia l’acqua e il capitone sembra felice nel suo nuovo habitat.
«Nonna è normale che nessuno lo tocchi» le ho detto ieri sera, «se lo vediamo nuotare in questa vasca per una settimana, dopo chi ha il coraggio di mangiarlo? Ormai ci siamo affezionati».
«Ma tu, invece e te leggere tutti ‘sti libri inutili, perché nun te leggi nu poc a Bibbia?» mi ha risposto lei indignata. «Mangiare il capitone significa allontanare il male, non lo vedi che sembra un serpente? E il serpente è il simbolo del demonio!» ha aggiunto con un tono terrificante da far invidia al pagliaccio di IT. Il suo ghigno mi ha subito fatto pensare alla faccia che avrà stasera quando, con il suo enorme coltellaccio, decapiterà il povero capitone. A quel rito sacrificale non voglio più partecipare. Mi è bastato vederlo solo una volta. Il sangue che schizza da tutte le parti e i pezzi del capitone che sembrano davvero indemoniati e non lo vogliono sapere di cadere dentro la padella. Quel macabro ricordo ha turbato i miei sogni di bambino per molti anni.
Ripenso a quella scena mentre torno a casa dal porto. E’ l’alba della vigilia di Natale e le strade sono piene di persone che, come da tradizione, hanno aspettato l’ultima ora per comprare i pesci al mercato. Sono l’unico che non trasporta pesci ma un secchio vuoto, per fortuna nessuno ci fa caso. La città è tappezzata di manifesti, dove mercenari del pallone parlano in dialetto per magnificare confetti di cioccolata colorata. Ormai sono anni che le industrie dolciarie americane adottano questo stupido stratagemma. Sono tentato dal salire sul mio secchio capovolto e provare a strapparne qualcuno, ma il gomito mi fa ancora molto male. Spero di non essermelo fratturato quando sono scivolato stanotte in bagno. Ero al buio e stringevo il cellulare tra i denti per farmi luce. Sarà per quello che non ho visto l’acqua che era uscita dalla vasca. Per fortuna, nella caduta, il telefono è finito nel water, se fosse finito nella vasca non sarei riuscito ad asciugarlo con il phon. Adesso che ci penso ho anche un forte dolore alla fronte, devo aver sbattuto la testa sul bidet. Passare la vigilia di Natale all’ospedale non è proprio il massimo ma l’urlo disumano che arriva dal vicolo accanto mi fa cambiare idea. «Currite, currite, se n’è fujute o capitone» è la voce impressionante di mia nonna che sento arrivare da molto lontano prima di entrare al pronto soccorso con un secchio vuoto in mano.
La seconda parte la trovi qui
Gianluca Papadia è autore di molti racconti vincitori di premi letterari. Ha pubblicato il libro:
- La rabbia eaudita. 32 consigli per combattere l’ira – raccolta di racconti, Amazon, 2018
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