
CattiviConsigli . IRA
Non capisco un tubo
In 22 Aprile 2022 da Gianluca Papadia«Soffre di claustrofobia?» mi chiede l’addetta all’accettazione del centro diagnostico.
«Ora che me lo chiede, sì» rispondo stizzito. «Soffro di tutte le patologie che finiscono con fobia e sa qual è la formula magica per farmelo scoprire? Farmi una domanda del genere. La ringrazio. Nessuno ancora mi aveva chiesto se soffrissi di claustrofobia». E avrei continuato a prendermela con quell’innocente giovane donna fino alla fine della giornata se mia moglie, dopo averla ringraziata, non mi avrebbe letteralmente trascinato fuori da quella sala d’aspetto.
«Se il solito cafone, la ragazza stava solo facendo il suo lavoro» mi fa notare mia moglie quando entriamo in ascensore. «Devi fare una semplice risonanza magnetica, mica un intervento a cuore aperto».
«Ti vorrei ricordare che siamo nel 2022, mia cara. C’è un fottuto robottino su Marte che viene telecomandato da un nerd americano comodamente seduto su una poltrona del Kennedy Space Center di Houston ed io, per una lombalgia, mi devo far chiudere in un sarcofago per 15 minuti?»
«Decidi adesso però» dice mia moglie bloccando l’ascensore.
«Sei pazza?» protesto io non riuscendo più a deglutire.
«Se non vuoi fare la risonanza, torniamocene a casa».
«La faccio, la faccio» piagnucolo e premo più volte il pulsante del terzo piano.
Per fortuna l’ascensore riprende la marcia e, dopo ventidue interminabili secondi, raggiunge il piano desiderato.
«Questa botta di stress potevi pure evitarmela» sussurro quando il battito torna regolare.
Ci sediamo in silenzio nella sala d’aspetto stranamente vuota per le norme covid ancora in vigore.
Giusto per tranquillizzare i pazienti in attesa di tumulazione, la tv manda immagini della guerra in Ucraina.
Per distarmi faccio l’errore di leggere le avvertenze che mi hanno consegnato all’ingresso. Praticamente il tubo dove verrò rinchiuso non è una tomba come pensavo ma un nocciolo di un reattore nucleare pronto a esplodere alla minima presenza di qualcosa di metallico.
«Non leggere quelle cazzate» mi rimprovera mia moglie strappandomi il foglio dalle mani.
Se non avessi un dolore persistente alla schiena, avrei già distrutto quell’asettica stanza senza finestre. L’immagine di me che solleva il boccione dell’acqua e lo scaraventa dentro la tv, mi fa stare meglio.
Il codice M24 che compare sul display è il segnale che non ho più scampo.
Con il passo del condannato a morte mi trascino fino alla stanza 5, dove mi attende una giovane donna in camice bianco. Lancio un ultimo saluto a mia moglie mentre la porta si richiude con un tetro rumore metallico.
«Ha scelto quella aperta? Soffre di claustrofobia?» mi chiede la simpatica dottoressa dopo essersi seduta dietro una scrivania.
«Sì e già qui non ci sto molto bene» ringhio, alludendo all’ambiente in cui ci troviamo che somiglia a un bunker antiatomico. Basterebbe davvero poco per trasformare questo posto in un luogo più accogliente.
«Ha subito operazioni al cuore o agli occhi?»
«Non che io sappia…»
«Non ha pacemaker, defibrillatore sottocutaneo o apparecchi del genere?»
«No».
«Nessuna protesi?»
«No» e capsico che l’interrogatorio serve a testare la tenuta psicologica del paziente. Chi riesce a superare questa prova senza batter ciglio può varcare la soglia del non ritorno.
La dottoressa mi consegna una busta con un camice e due ciabattine di stoffa che evidentemente sono l’ultima prova da superare: se riesci a indossare quei due ridicoli indumenti in un camerino un metro per un metro senza sbroccare, puoi affrontare qualsiasi difficoltà nella vita. Le ridotte dimensioni sono studiate apposta per prepararti ai quindici minuti più lunghi della tua vita.
Che poi vorrei dire a questi geni della direzione sanitaria di questo posto: ma se uno fa una risonanza magnetica perché è rimasto bloccato con la schiena, come pensate che riesca da solo a spogliarsi e indossare quest’indumenti di carta che normalmente richiedono doti da contorsionisti?
«Tutto bene?» chiede il tecnico da fuori la porta dell’armadietto che spacciano per spogliatoio.
«Sì, grazie. Sono solo un po’ lento nei movimenti».
«Faccia con comodo» aggiunge l’uomo con un tono impaziente che smaschera la sua ipocrisia.
Quando finalmente riesco a indossare quell’assurda vestaglia di carta trasparente, il processo di disumanizzazione del paziente è completato: sembro la parodia – riuscita malissimo – di Ugo Tognazzi nel film cult Il vizietto.
Esco dal micro-spogliatoio strusciando i piedi sulle pantofole che non sono riuscito ad indossare.
Il distacco con il quale gli operatori sanitari trattano i loro pazienti è la chiave della nostra sopravvivenza sul pianeta. Se non riuscisse ad astrarsi e rimanere insensibile, nessun essere umano potrebbe fare il medico, l’infermiere o il tecnico di radiologia.
«È la prima volta che fa una risonanza?» mi chiede l’uomo che mi aspetta alla fine del miglio verde.
«No, ma ogni volta è come se lo fosse. Ho la stessa paura della prima volta».
L’uomo sorride pensando che la mia sia una battuta e mi indica il lettino dove stendermi. Dopo aver sistemato un cuscino sotto le mie gambe e un portaspilli sotto la mia testa, monta una specie di gabbia sulla mia pancia. In caso d’incendio, pure se riuscissi ad emergere dal tubo infernale, non riuscirei lo stesso a salvarmi. Per completare il processo di mummificazione, il sacerdote egizio mi infila un paio di cuffie antirumore che aumentano la mia percezione della pericolosità di quell’esame.
«Questo lo preme solo in caso di emergenza» è il colpo di grazia che mi infligge il tecnico porgendomi un pulsante che afferro con la mano destra come un naufrago alla vista di un salvagente.
Quando il lettino inizia a muoversi all’indietro, chiudo gli occhi e vedo tutta la mia vita materializzarsi sulla retina come uno di quei filmini super 8 tanto in voga negli anni Settanta.
«Scusi, ma io avevo scelto quella aperta» esclamo con l’ultimo filo di voce quando il lettino si ferma e realizzo che il mio naso è a un centimetro dalla parte superiore del tubo.
«Questa è quella aperta,» risponde il tecnico, «guardi bene sui lati».
In effetti, ai lati del feretro, ci sono due piccole feritoie che fanno filtrare un po’ di luce.
«Posso togliere la mascherina?» chiedo ormai in debito di ossigeno.
«No», risponde prontamente lui, «veda di resistere, durerà solo quindici minuti e mi raccomando, stia fermo».
Ci vuole solo una mente demoniaca per pensare che un essere umano riesca a stare fermo in quella situazione per più di trenta secondi.
Il suono della pesante porta di ferro che si chiude trasforma in realtà l’incubo che tormenta ogni uomo dalla nascita: la tatofobia, quella paura ossessiva di essere sepolti vivi.
Ormai non hai più scampo, il battito cardiaco accelera e la salivazione è ridotta ai minimi termini.
Dopo due minuti, perdi l’uso della mano destra: hai stretto così forte quel pulsante che ormai il sangue non circola più.
Ti sforzi di pensare alle cose belle della vita ma la tua fantasia è azzerata da quel rumore assordante prodotto da quella macchina diabolica; nemmeno Dario Argento avrebbe potuto scegliere una colonna sonora più terrificante di quella.
I quindici minuti più lunghi della tua vita ti segnano per sempre.
Dopo questa esperienza, niente potrà più scalfirti e, quando senti il lettino muoversi in avanti, ti senti un eroe pronto ad affrontare qualsiasi sfida coraggiosa.
È una vera e propria resurrezione.
Mentre senti affluire di nuovo il sangue in quelle zone del corpo addormentate da quindici minuti di completa immobilità, quell’insensibile tecnico privo di cuore stronca tutti i tuoi propositi di rinascita: «Mi sa che si è mosso un po’ troppo. Dobbiamo rifarla».
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