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Panni stesi
In 24 Giugno 2022 da Gianluca PapadiaNei vicoli di Napoli i panni si stendono tra un palazzo e l’altro. Un’alternativa non c’è. Quel filo crea un’intima condivisione del bucato unica nel suo genere. È un atto di fiducia nei confronti di un potenziale sconosciuto che pone le basi per una convivenza leale e duratura.
I due dirimpettai, senza nessun accordo legale, redigono un patto di non belligeranza: io rispetto il tuo bucato e tu fai lo stesso con me.
Se il filo è occupato, aspetterò tranquillamente il mio turno e se, nel peggiore dei casi, dovesse mettersi a piovere, il primo ad accorgersene, salverà il bucato di entrambi gli sfruttatori del filo comune.
Un vero e proprio decalogo d’onore del saper vivere bene in uno spazio così limitato.
Sì, perché nel vicolo, il tuo dirimpettaio vive in casa con te. È un parente acquisito di cui conosci qualsiasi segreto.
Il filo di panni stesi rappresenta un cordone ombelicale che non potrai mai tagliare.
Appena si è diffusa la notizia che il nuovo sindaco avrebbe firmato un’ordinanza per vietare i panni stesi nei vicoli, mia moglie già stava sotto il municipio a protestare.
«Noi che abitiamo ai quartieri spagnoli, dove li dobbiamo stendere i panni?», si è messa a urlare lei insieme a un’altra ventina di scalmanate.
«Dacci i soldi per l’asciugatrice», è subito diventato lo slogan più gettonato durante il sit-in spontaneo formatosi in meno di un’ora.
«Ma… veramente… non sapremmo nemmeno dove metterla», ha urlato uno dei pochi mariti presenti alla protesta, che per poco non veniva sbranato vivo dal branco di assidue stenditrici di panni.
«È soprattutto un fatto culturale», ha provato a stemperare gli animi Vicidomini, il generale in pensione che abita nel nostro palazzo. Dall’alto della sua incontrollabile logorrea, il vecchio condomino ha iniziato a sciorinare un lunghissimo elenco di fotografi, pittori e registi che hanno magnificato i panni stesi della nostra città nell’ultimo secolo.
«Non tiene altro a cui pensare?», urla all’improvviso Pasquale, il portiere, e nessuno si meraviglia più di tanto di vederlo in Piazza Municipio, a qualche centinaio di metri dalla portineria che non dovrebbe mai lasciare incustodita.
«Pensasse alla sporcizia, piuttosto», gli fa eco la signora Maria del sesto piano, «nei vicoli ci sta tanta monnezza che gli spazzini si tengono alla larga. E vogliamo parlare degli scooter che sfrecciano nonostante l’isola pedonale? I vigili che fanno?».
«E a tutti i delinquenti non ci pensa? La polizia dove sta?», grida Giggino il falegname, proprio in faccia a uno dei celerini – in assetto antisommossa – che sono comparsi dal nulla, appena gli animi hanno iniziato a riscaldarsi.
«Siamo qui a perdere tempo con voi», risponde dal megafono l’ispettore Esposito, «adesso, se gentilmente ve ne tornate a casa, noi possiamo continuare a fare il nostro lavoro».
«Noi non ce ne andiamo se prima non parliamo con il sindaco», urla Concetta che vende le magliette di Insigne su una bancarella all’inizio del nostro vicolo.
«Ma di cosa volete parlare?», chiede spazientito l’ispettore.
«Ce lo venga a dire in faccia che i panni non li possiamo più stendere. Come si asciugano se ce li teniamo in casa?», è il grido disperato che arriva dal centro del corteo.
Visto che la folla non ha nessuna intenzione di dileguarsi, i poliziotti abbassano le visiere.
Le donne interpretano quel gesto come una sfida e si accalcano ancora di più premendo forte sugli scudi di plexiglass.
Vedo Vicidomini, stretto tra due fuochi, intento a elencare una serie di opere letterarie che citano l’usanza tutta napoletana dei panni stesi. Cerco di attirare la sua attenzione ma il volume della calca sovrasta la mia voce e il vecchio è – come sempre – troppo preso dalla sua enfatica esposizione, che non si accorge dei miei inutili gesti.
Anche mia moglie è in prima fila e affronta a muso duro quel muro umano di sudatissimi poliziotti.
L’aria si è fatta incandescente e non solo per colpa di un sole troppo caldo per il mese di giugno.
A un cenno di Esposito, i poliziotti cominciano a muoversi tutti insieme. Avanzano compatti, cercando di allontanare la folla dall’ingresso del municipio.
Una donna anziana sviene e – per fortuna – subito viene soccorsa e portata lontana dalla guerriglia.
«Disperdetevi o saremo costretti a usare la forza», è l’ultimo avvertimento di Esposito.
All’improvviso, il silenzio surreale che è piombato sulla scena, viene interrotto da un urlo proveniente dalle retrovie: «Gennà, Gennà, ma sei proprio tu? Ve lo ricordate a Gennaro? Il figlio della signora Corallo?».
«Sì è proprio lui», risponde qualcuno.
«Sei il figlio di Immacolata?», chiede mia moglie a uno dei poliziotti.
Gli occhi della folla sono tutti puntati su quel giovane agente.
«Sì, sono io, ma adesso fate i bravi e tornatevene a casa», risponde timidamente lui, a bassa voce, come non volesse farsi sentire dai suoi colleghi.
«Gennaro il miracolato?», chiede Ciro il gommista.
«Gennarino il miracolato», risponde prontamente mia moglie.
«Ispettò, quello cadde dal settimo piano e sapete perché si salvò?», chiede una donna all’uomo col megafono.
«Perché la caduta fu attutita da tutti i panni stesi», urla in coro tutta la folla.
Tutti vogliono dare un saluto al poliziotto miracolato e non c’è assetto da guerra che tenga.
Gli scudi vengono superati senza nessuna resistenza da parte delle forze dell’ordine.
Gennaro Corallo abbraccia tutti con enorme imbarazzo sotto lo sguardo felice dei suoi colleghi.
In questo quadro celestiale solo due persone sono assolutamente fuori luogo: l’ispettore Esposito, che per poco non si mangia il megafono dalla rabbia, e il generale Vicidomini, che continua a elencare le ragioni per cui un’ordinanza del genere, nella città di Napoli, non si potrà mai fare.
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