Le storie superbe . SUPERBIA
Non-puoi-tornare-indietro
In 17 Aprile 2016 da Redazione Seven BlogIl racconto quarto classificato di StorieSuperbe – L’Avarizia
di Serena Folchi
Guardo queste pareti grigie illuminate da una lampadina gialla, su cui si riflette la mia ombra minacciosa e allungata. Ho la sensazione che tra un momento questa figura prevarrà su di me, camufferà i miei gesti e vivrà di vita propria. In fondo era questo lo scopo, ma ora ne ho timore. Sono in quell’attimo di insicurezza psicotica che precede una scoperta. Le mani sudate, gli occhi acquosi, il futuro in una bolla, il passato prepotente.
Ta-tac. Il pulsante è stato premuto. Il dito affondato tra i suoi meccanismi, gli ingranaggi lavorano ottusamente. E tu non puoi tornare indietro.
Non-puoi-tornare-indietro. Punto. È una constatazione, un periodo da prendere alla lettera, nessun senso lato.
Il laboratorio è improvvisamente vuoto. Tutto ciò che c’è dentro lo conosco a memoria, non ho vissuto altrove in questi anni. Sono cose mie, cose che mi rappresentano, che mi affidano un ruolo. Ma ora non esistono più, ora questo luogo è immenso e vuoto.
Sento a malapena l’odore di ruggine, il freddo del ghiaccio sublimato, il tintinnio della pallina a pendolo che galleggia a destra e sinistra. Anche se chiudo gli occhi – ci provo più volte, ovviamente – tutte queste sensazioni conosciute sono diventate istruzioni imposte al cervello che sottendono una dimensione tutta nuova.
Allungo le mani e avanzo in questa oscurità che ora mi mette a disagio. Tocco la lampada, calore. Urto un’ampolla, la afferro in tempo, mi bagno i guanti. Il liquido penetra nel cotone, me li immagino, quei fili di trama e ordito che si bagnano, e quella piccola pozzanghera che si allarga, che si fa spazio tra le maglie del tessuto; immagino anche la pigrizia del cotone che ha il compito di trattenere il liquido mentre quello si vuole impossessare dello spazio intorno. E non so nemmeno perché mi fisso delirante su questo particolare, senza preoccuparmi invece di capire cosa sia il liquido che ho versato, se è pericoloso per la mia pelle. «Non sono mica immortale», mi dico. E la voce mi sembra piatta, robotica.
«Chi sei?». Sono sempre io che parlo. Lo chiedo alla voce robotica, non si sa mai. Nessuna risposta. Così riapro gli occhi. Dovrei uscire di qui, togliermi questo camice, questi guanti, guardare la luce naturale. Ma qualcosa mi trattiene ancora. Non è una responsabilità, piuttosto mi sembra una non-scelta.
E finalmente me lo dico. Mi libero.
Ce l’ho fatta. Ho fermato il tempo.
Ho fermato i minuti, i secondi, gli attimi, mentre la vita prosegue. Non diventerò vecchio, nessuno lo farà. È stato il mondo a chiedermelo, anzi, di più, tutti i mondi costruiti insieme dentro questo angoscioso e affascinante universo, e io li ho accontentati tutti, ho accontentato la loro brama sconsiderata, la loro sete di eternità, quella fragile e inconsistente paura della notte e l’ansia del nuovo giorno, la fatica dei sogni, e la rabbia per non riuscire a realizzarli, la richiesta di piacere che rimane sempre disattesa, l’inganno dei rapporti con gli altri, l’avidità nel prendere e l’incapacità nel dare. Era solo una questione di tempo, il male deriva dal contarlo, dal trattenerne ogni attimo con avarizia. E io ho accontentato l’arroganza dell’animale più intelligente e più crudele. Ho accontentato me.
Sono bastati elettroni e neutroni, sono bastati questo laboratorio e questi oggetti, questi libri. Oltre che l’intera mia vita. Ma ora ho tempo, non lo elemosinerò più a me stesso. Vivrò solo, qui, al sicuro, con un orologio che non muove più le lancette.
Fino alla fine dei miei giorni.
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