CattiviConsigli . IRA
Caffè sospeso
In 5 Aprile 2019 da Gianluca PapadiaNel mio bar, serviamo solo vero espresso napoletano doc. Qui non c’è posto per gli amanti dello “shakerato”, lo “schiumato”, il “nocciolato” o il “brasiliano”. Non ci piacciono gli aggettivi esotici associati al caffè, per noi servire il caffè è una missione. C’è un rapporto mistico tra me, “La San Marco” e la miscela. I chicchi di arabica sono macinati al momento e tutto qui dentro è fatto in modo che la miscela non perda mai l’aroma: l’umidità dell’aria, la luce che filtra dalle vetrine, il grado di acidità dell’acqua. Questo non è un bar, questa è una clinica specializzata. Noi creiamo un prodotto unico e non seguiamo le tendenze del momento. Il mio bar è un altare laico dedicato al consumo di una bevanda divina.
«Un caffè in tazza fredda» mi chiede una cliente e mi viene voglia di rompergli la tazzina in testa.
«Non ho perso l’uso del pollice e dell’indice della mano destra perché mi diverto a farti bruciare le labbra» le rispondo in maniera dura ma educata.
«Tengo le mie tazze in acqua bollente, solo perché, in questo modo, la crema manterrà più a lungo l’intensità aromatica. Non sono mica un sadico» aggiungo servendole una tazza più bollente del solito. Le vedo le lacrime agli angoli degli occhi che fa fatica a trattenere. La signora lascia a metà il mio caffè ed esce per sempre dal mio bar. Mia moglie, dalla cassa, comincia a lanciarmi occhiate intimidatorie ma io faccio finta di non vederla.
«Un caffè in vetro» è la richiesta del prossimo cliente.
«La porcellana è l’unico materiale in grado di mantenere la temperatura del caffè costante» cerco di spiegare al giovane avventore. «Il caffè ha una temperatura di circa 65°C ed io devo fare di tutto per preservarla» concludo porgendogli una tazzina di porcellana bianca. Vedo le saette che arrivano dalla cassa e cerco di scansarle.
«La forma, lo spessore, la capacità e perfino il colore sono stati studiati per esaltare al massimo le qualità dell’espresso napoletano» enuncio mentre servo il caffè ad alcuni clienti abituali del mio bar. Di clienti nuovi ne abbiamo sempre meno e mia moglie dice che la colpa è mia.
«Un caffè in monouso» mi chiede una ragazza coraggiosa.
«Qui non siamo da Starbucks, signorina» le dico sforzandomi di sorridere, «la gente non capisce che il caffè è come il vino: ha bisogno del contenitore giusto per essere gustato in pieno» aggiungo, sicuro di aver perso un’altra cliente. «Il colore bianco traslucido fa risaltare i riflessi della crema. Ormai il design è diventato sovrano rispetto alla praticità. Una tazzina da caffè non può essere colorata! Io ci sono stato da Starbucks, lo sa? Le ho viste quelle tazze nere» e scanso lo sguardo carico di odio di mia moglie.
«Sei finito in caserma, però» grida il Cavalier Pessotto che occupa, da dieci anni, sempre il solito posto. La gente mi chiede spesso se il Cavaliere dorma pure su quella sedia. Nessuno l’ha mai visto in piedi.
«Le tazzine continuavano a sfuggirmi di mano. La tazzina non deve avere una forma diversa dal solito megafono perché poi capita che ti scivoli di mano» dico per chiudere questo discorso molto pericoloso. Mia moglie non mi ha mai perdonato quel gesto folle. Quando la polizia mi portò fuori da quel locale in manette, a lei venne una crisi isterica.
«Un caffè schiumato» mi ordina un distinto signore sulla sessantina.
«Macchiato vorrà dire» rispondo stizzito. Sento un pizzicorino alle mani. «Crede che il mio caffè sia troppo pesante? Ha bisogno di stemperare la miscela con una goccia di latte?» chiedo al signore di fronte a me. «Perché nel mio bar, il caffè macchiato è questo. Qualche barista rubato alla cucina gourmet, ha pensato bene di usare la schiuma di latte per macchiare il caffè, ma quello si chiama cappuccino, soprattutto se ci metti sopra una spruzzata di cacao. E il cappuccino non ha nulla a che vedere con la tradizione del caffè napoletano che dura dal 1700» urlo al signore che è scappato via senza nemmeno riprendersi indietro l’euro.
«Mi aggiunge una goccia di latte freddo?» mi chiede una signora che evidentemente si è persa il mio comizio sull’importanza della temperatura.
«Se vuole una goccia di latte freddo, allora le consiglio di guardare nel frigo dei gelati: troverà il Cafè Zero dell’Algida. Da questa parte serviamo caffè caldo a 65 gradi centigradi, mi spiace».
La signora guarda gli altri avventori come se fossi un pazzo ed esce velocemente dal mio bar. Mia moglie abbandona la cassa e decide di scendere in campo proprio mentre un nuovo cliente mi chiede un caffè lungo.
«Nella tazzina ci devono andare venticinque millilitri di espresso, che devono colare dalla macchina esattamente in venticinque secondi» dico al nuovo avventore.
«Fallo un po’ lungo e basta» interviene mia moglie mettendosi alle spalle del cliente.
«Non posso!» urlo a mia moglie. «Lei capisce che non posso?» dico al mio cliente cercando il suo consenso.
«Ok, non fa niente, lo prendo normale» mi risponde lui in imbarazzo.
«Un millilitro al secondo. Ci metto un’ora la mattina per calibrare la macchina» dico vittorioso porgendo il caffè al mio cliente.
«Se il caffè cola troppo velocemente, diventa sciaquo, poco corposo, se cola troppo lentamente, è appicciato, cioè si brucia» e sfido lo sguardo di mia moglie.
Il cliente consuma velocemente il suo espresso normale e vorrebbe scappare ma si blocca quando incrocia il mio sguardo. Sembriamo il buono, il brutto e il cattivo nella famosa scena finale del triello che ha consacrato Sergio Leone nella storia del cinema mondiale.
«La prossima volta il caffè lungo glielo faccio io» dice mia moglie, perfettamente a suo agio nella parte del cattivo. Il biondo (il cliente) ringrazia con un cenno della testa e scappa via dal saloon.
«Questo è un bar non un’aula di tribunale. Tieni la tua filosofia da quattro soldi lontana dal mio bar» mi ricorda Sentenza (mia moglie).
«Appunto questo è un bar. Qui serviamo solo caffè» rispondo, facendo roteare il cucchiaino sull’indice della mia mano destra come se fosse una colt.
Sento le note di Ennio Morricone in sottofondo mentre mia moglie, rassegnata al mio integralismo, torna al suo posto dietro la cassa.
«L’unico aggettivo che posso tollerare è “amaro”» le urlo con la voce di Tuco Ramirez (il brutto).
Mentre scorrono i titoli di coda sul primo litigio della giornata, una ragazza interrompe il religioso silenzio in sala e mi chiede: «Avete lo zucchero di canna?».
«Signorina, come vede sul mio bancone, non c’è la solita esposizione di dolcificanti, zuccheri alternativi, fruttosio; in questo bar usiamo solo lo zucchero bianco. Questo è un bar, non un’erboristeria» le rispondo senza neanche voltarmi.
«Allora me lo dia amaro che sono a dieta.»
«Mi dispiace» esclamo ironico, «me lo doveva dire prima. Nel mio bar lo zucchero lo metto io» aggiungo mostrando la zuccheriera appoggiata alla base della mia macchina da caffè.
«Allora me lo rifà oppure io in questo bar non ci metto più piede.»
«Prego, si accomodi» e le indico l’uscita con il mento.
Lei, con una faccia disgustata, scappa via senza nemmeno salutare.
«Di questo passo resterò l’unico cliente» grida il Cavalier Pessotto dal fondo della sala.
«In questo bar facciamo lo stesso caffè da duecento anni, non è colpa mia se i gusti della gente sono cambiati» mi affretto a precisare per anticipare la reazione di mia moglie. Per fortuna, proprio in quel momento, nel bar entra un ragazzo e lei non può lasciare la sua postazione.
«Due caffè, uno “sospeso”» dice il generoso cliente e il tempo si ferma. E’ come se qualcuno avesse premuto il tasto pausa sul videoregistratore. Lui, dopo aver incassato il resto, percorre lo spazio, dalla cassa al mio bancone, al rallentatore.
«Un caffè» mi dice ma sono ancora sotto choc e non riesco a muovere un dito.
«Fai un caffè al signore» mi urla mia moglie ma la sua voce è distorta. La vedo mentre lascia la cassa e viene a mettersi al mio fianco, dietro il bancone. Versa dell’acqua minerale in due bicchieri, uno lo porge al giovane cliente e uno me lo butta in faccia. Solo così mi riprendo dallo stato comatoso in cui ero caduto. Mi asciugo il volto con lo straccio che porto sempre infilato nella cintura dei pantaloni; mi giro verso la macchina, sgancio il portafiltro ed erogo acqua calda per eliminare i residui del caffè precedente; pulisco il portafiltro con il pennellino che ho sempre a portata di mano; accendo il macinino elettrico sotto la tramoggia piena di chicchi di caffè; poggio il portafiltro sotto la tramoggia e lo riempio di caffè appena macinato. Un odore forte di caffè invade l’aria. Con il pressino manuale comprimo bene il caffè nel filtro; con il solito pennellino, rimuovo la polvere in eccesso; con uno spruzzino, pulisco minuziosamente i due beccucci da dove esce il caffè e, dopo aver abbassato la leva, aggancio il portafiltro alla macchina; dopo aver alzato la leva, esattamente dopo venticinque secondi, la tazzina è pronta per essere servita. Mia moglie suona il campanello che c’è sul bancone, poi fa uscire l’aria calda dal beccuccio della macchina da caffè come se agitasse un turibolo e cade in ginocchio. Il Cavalier Pessotto si alza a fatica dal suo posto. Ore e ore di permanenza su quella sedia gli hanno compromesso l’uso delle gambe e con uno sforzo enorme raggiunge anche lui il bancone. Mi giro con la solennità del prete sull’altare quando prende la pisside dal tabernacolo e faccio di tutto per non guardare nella camera del cellulare che il ragazzo sta usando per fare un video.
Prima di servire la tazzina al cliente, la alzo al cielo e recito in trance: «Il caffè sospeso a Napoli è molto di più di un gesto solidale verso un perfetto sconosciuto. E’ una filosofia di vita, un modo di approcciarsi al futuro in maniera positiva. Ti godi il tuo caffè ma ne paghi due. In questo modo, quando una persona bisognosa entrerà nel mio bar, potrà godere pure lui di questo piacere immenso.»
«Amen» urlano in coro mia moglie e il Cavalier Pessotto facendosi il segno della croce. Li vedo gli occhi pieni di lacrime del mio cliente fisso: anche oggi ha trovato chi gli paga il caffè.
Il ragazzo consuma il suo caffè con calma e poi preme stop sul cellulare, ringrazia tutti e, mentre esce, registra un messaggio vocale su qualche chat di WhatsApp: «Ragazzi avevate ragione, questo tizio sta fulminato lui e il caffè sospeso.»
Aiuto mia moglie a rialzarsi e preparo il caffè al Cavaliere. Il caffè sospeso tocca a lui, ha recitato magistralmente la parte del finto miracolato.
«Quando il video diventerà virale ngopp a internet, il nostro bar sarà di nuovo pieno di gente» dico a mia moglie che sta tornando felice al suo posto. «E mezzo bicchiere d’acqua andava più che bene, m’he fatt a doccia» aggiungo prima di entrare in bagno a cambiarmi la camicia.
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