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Di quarantenni single, di Crozza e di letteratura
In 24 Settembre 2017 da Debora BorgognoniMatrimonio single. Sposa di me stessa. Di cosa stiamo parlando? Del nulla, è chiaro. E di solito noi evitiamo di parlare del nulla, o di dare voce a giochi disperati di quarantenni frustrati con manie di grandezza. Per essere morbidi. Quindi non descriveremo la vicenda di quella tale single quarantenne che ha speso diecimila euro per celebrare se stessa – attraverso le nozze con se stessa – (tanto, ne trovate parecchi di articoli a riguardo), ma prenderemo spunto da questo incredibile atto di narcisismo estremo per riflettere brevemente sull’Anno Domini 2017, ormai alla fine; sull’italia, volutamente senza capital letter; e sulla comunicazione social che pervade una società che, non è un mistero, presenta fin troppe crepe culturali per permetterci di amarla ancora.
Ecco, cultura. Martha Nussbaum è una filosofa statunitense. Negli anni Novanta pubblica il saggio critico ancora attuale (anzi, forse ora più che mai) Poetic Justice. The Literary Imagination and Public Life (Beacon Press, Boston, 1995), in cui ribadisce quanto «la letteratura aiuti a comprendere la realtà nella quale, non solo come uomini, ma anche in aspetti specifici del compito di governanti, economisti, giudici, avvocati, siamo chiamati ad agire» (Bettetini, Fumagalli, Quel che resta dei media. Idee per un’etica della comunicazione, FrancoAngeli, 2010).
Può sembrare che l’abbiamo presa un po’ alla larga. Ma la polemica sull’utilità delle lauree umanistiche non è cosa nuova. Chi venerdì sera ha assistito alla prima puntata di Fratelli di Crozza, in cui il comico politico ci consegna un’efficace imitazione di Vittorio Feltri, ha solo visto l’ultima analisi della questione (qui la parodia).
Senza andare troppo all’estremo con Feltri e Libero Quotidiano, bastano gli articoli de Linkiesta o del Il Fatto Quotidiano a ricordarcelo. Università, ora è ufficiale: le lauree umanistiche non servono a niente. Oppure: Non mentiamo agli studenti. Una laurea umanistica non rende.
E si sprecano opinioni su LinkedIn (sempre ammesso che quel social formato-professioni e trasformato in social formato-stronzate serva a qualcosa, se non a farti stracciare i marroni da recruiter che non leggono nemmeno il tuo profilo e scambiano la comunicazione con il marketing e il marketing con la vendita porta a porta) del tipo: «a tutti i ragazzi che si lagnano del sistema che non premia gli anni di studi, suggerisco di studiarsi almeno le basi della vendita, così da capire che se non crei un valore aggiunto al prodotto che vendi, nessuno lo comprerà, per quanto meraviglioso possa essere. I libri di Scienze della Comunicazione li ho studiati pure io, abbastanza a lungo da capire che sono meravigliosi, culturalmente eccitanti (per me) e, per lo più, assolutamente inutili in un contesto aziendale» (da LinkedIn, post pubblico di Paolo Borzacchiello).
Errore. Sono le connessioni che ci renderanno migliori, che ci faranno apprezzare quello che Martha Nussbaum non vuole che muoia: l’umanità, la società, la cultura come insieme e intreccio di idee e valori sedimentati. Non si può prescindere dall’analisi di una “etica della narrazione”, sia che poi tu vada a vendere prodotti, sia che tu scriva libri, sia che tu faccia l’operaio in una catena di montaggio. A meno che tu non voglia essere acefalo.
E sono le connessioni, che partono ancora da un’etica della narrazione, a farci dire che ciò che ha fatto la quarantenne single non presenta nulla di buono. Quei diecimila euro avrebbero potuto aiutare molti bambini a distanza, per fare un esempio, o la ricerca scientifica, per farne un altro. Ci fanno dire che non è del tutto vero che “ognuno spende i propri soldi come preferisce”, se questo ha l’unico scopo di creare un precedente che alimenti, in modo sempre più pericoloso verso la cancellazione della comunità, un malsano individualismo, e incoraggi il sogno di quello che Andy Warhol chiamò “il quarto d’ora di celebrità”.
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