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Il talento e la solitudine della regina
In 9 Novembre 2020 da Fabio MuzzioDirei che è più facile giocare una partita senza il fardello di un pomo di Adamo
Elisabeth Harmon
Nella mia vita ho giocato pochissime partite sapendo a malapena come si muovono i pezzi. Mi sono avvicinato a La regina degli scacchi con grande curiosità non certo per tornare a muovere il cavallo o l’alfiere e nemmeno per riuscire a capire un gioco di strategia affascinante e impegnativo ma con due curiosità: la prima di scoprire un nuovo ruolo al femminile e la seconda di cercare di entrare nell’animo di chi si mette davanti alla scacchiera sapendo che se ha il bianco parte con un vantaggio.
La sceneggiatura, che nasce dal romanzo del 1983 di Walter Tevis The Queen’s Gambit, titolo originale della serie, cita una delle aperture più classiche degli scacchi, il gambetto di donna, ci conduce a immedesimarci in chi, per esempio, è prigioniero di una ossessione, vittima del perfezionismo e cela qualsiasi sentimento se mai ne abbia. Un ghiaccio che non si rompe, perché lo sguardo è sempre rivolto alla scacchiera con quella paura che porta dipendenza da droga e alcool, i due modi per andare oltre, perché si pensa sia il modo per vedere quello che gli altri non vedono.
Ci sono poi i consigli a segnare e mettere in guardia,
… gli uomini vogliono sempre insegnarti qualcosa, non per questo sono intelligenti e molto spesso non lo sono… tu lasciali blaterare e poi vai avanti e tu fai sempre quello che ti pare, cavolo…
… devi essere una donna forte per stare da sola in un mondo in cui le persone si accontentato di tutto pur di dire di avere qualcosa: non dimenticare mai chi sei…
che finiscono con l’essere la base di approccio con la vita di una bambina rimasta sola, curiosa e dalle gambe sottili, che scende i gradini dello scantinato dell’orfanotrofio per salire a quelli più alti del mondo, e raggiungere il traguardo desiderato quello che, con tutta probabilità, porta alla pace interiore se non ti distrugge prima, per arginare un demone che ti corrode in ogni istante e si nutre di quelle pillole verdi rifugio e aleatoria panacea.
Nella vita di Beth c’è anche il senso di colpa e la consapevolezza della difficoltà di lasciarsi andare: i rapporti che nascono sanno di utile sodalizio e raramente di amore vero.
Beth (Anya Taylor-Joy) incontra o si lega a qualcuno ma è l’unione di due solitudini che rimangono tali. La bambina che fissa in piedi nella semioscurità un solitario custode burbero, il Signor Shaibel, che sa leggere il talento, cela una bontà vera e le insegnerà le cose più importanti: la sconfitta e la resa quando si deve. Shaibel sarà il rimorso più grande, il ricordo più profondo, la riconoscenza più forte, quel qualcuno che mai ti ha dimenticato senza averti mai cercato e con cui hai un debito.
Chi ha un talento, che le persone comuni giudicano essere oltre la presunta normalità, quasi una devianza, seppur tra venerazione e a volte derisione, si sente alieno, e vive quel senso di incomprensione apparentemente capito solo dai propri simili. In realtà talvolta il rifiuto apparente è più immaginato che reale e Beth scoprirà di essere amata più di quanto voglia accettare, soprattutto per non soffrire.
Beth è cresciuta con Alice, una madre naturale colta e psicologicamente fragile dal destino fatale e poi una madre adottiva, Alma, che le somiglia e la capisce, essendo stata distrutta dal talento: tra loro nascerà un rapporto simbiotico fatto di molti silenzi, di sguardi di intesa e di aiuto reciproco; a loro si contrappongono le figure negative dei padri, simili fra loro, seppur differenti per destino ed estrazione sociale. In mezzo Jolene, la ragazza troppo vecchia per essere adottata e che alla Methuen Home for Girls la sceglie come la sua famiglia, la sua “mozzarella”: e poi Cleo, la modella che la seduce sapendo toccare le corde giuste. Dall’altra parte gli uomini: Harry che se ne innamora, D.L. che per lei ha l’amore dell’amico e Benny, la sua versione al maschile; tutti hanno un qualcosa in comune: averla sottovalutata finendone poi conquistati.
La solida narrazione, la fotografia azzeccata, la costruzione delle immagini accompagnano in due decenni di storia una ragazza dai capelli rossi e dallo sguardo indagatore, curiosa e metodica, maniacale e fragile, che attira l’attenzione con un piccolo colpo di tosse, che ti fissa e ti scava con gli occhi mentre la affronti davanti alla scacchiera e liquida i momenti più importanti della sua vita con dei “va bene” dei “d’accordo” od “ora o mai più”; due decenni dove la più bella della scuola finirà mamma e casalinga frustrata sulla strada dell’alcolismo ma pure di lenta affermazione delle donne, messe nell’ultimo tavolo a giocare fino ad arrivare al primo, quello della cima del mondo, oppure che studiano medicina o entrano negli studi di avvocati, perché assumere una donna di colore mette al passo con i tempi.
I geni, forse più di altri, non sfuggono al loro destino ma forse, lascio giudicare a voi se avete già visto oppure quando lo avrete fatto, La regina degli scacchi: Beth forse ci riesce, aprendosi a una parte di mondo che la vuole accogliere e agli amici che a diverso titolo le sono stati vicino a fatica, contro la sua stessa volontà, per quel meccanismo di autodifesa autolesionistico e controproducente.
Un quesito mi rimane sugli ultimi titoli di coda del settimo episodio: chi possiede un talento lo cerca o è il talento che si fa trovare in modo cinico fino a sgretolare e a togliere ogni energia possibile cercando di portare l’individuo alla distruzione? Una risposta non me la sono ancora data: provateci voi, tra una difesa siciliana e un arrocco, finendo inevitabilmente affascinati da Beth.
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