INVIDIA . Lector In Invidia
Tra sella e pedali. Il luogo dell’anima
In 3 Maggio 2018 da Attilia Patri DPCi siamo: 4 maggio 2018. Una data che rimarrà negli annali della Storia del Ciclismo. 4 maggio 2018: per la prima volta dalla sua istituzione, il Giro d’Italia spiccherà il volo da un Paese non europeo. Per la prima volta lo start per la Corsa Rosa numero 101 scatterà a Gerusalemme e proporrà tre tappe sul territorio israeliano per poi approdare in Sicilia l’8 maggio e, da qui, lo spettacolo fatto di colori e suggestioni, comincerà a risalire la Penisola da sud a nord e poi, ancora, da nord al centro, a Roma, attraverso 16 regioni, 21 tappe, 3546,2 chilometri, da venerdì (e non sabato come da tradizione) 4 maggio a domenica 27 maggio.
La scelta di Israele non è casuale: Gerusalemme – divenuta nei secoli luogo di pellegrinaggio e preghiera per ebrei, cristiani, musulmani – rappresenta il luogo che unisce idealmente Occidente e Oriente. Da Gerusalemme a Roma, dunque, da una città eterna all’altra, la Corsa Rosa simboleggerà una sintesi di storia, religione, tradizione, mescolata a sudore e fatica su due ruote, riporterà il ricordo indietro nel tempo facendo riaffiorare la storia dell’umanità; quella storia di umanità fatta di nomi incisi e ricordati nello Yad Vashem, il Memoriale ufficiale di Israele, quei nomi diventati Giusti tra le Nazioni, alberi piantumati in quel Giardino a ricordo eterno, nomi di non-ebrei che hanno agito in modo eroico – a rischio della propria vita e senza interesse personale – per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista e, tra questi nomi, quello di Gino Bartali al quale, il 2 maggio, è stata conferita, postuma, la cittadinanza onoraria di Israele.
Il 4 maggio 2018, con questa sua partenza, renderà ancora più speciale la 101esima edizione di quel Giro che, da sempre, già dal suo primo esordio, diventò la più aggiornata e collettiva testimonianza dei tempi, la cronaca nazionale di epoche, la Storia che procede comunque tra Nord, Centro e Sud, “un grande romanzo nazional-popolare” per dirla con Gramsci.
La 101esima edizione del Giro Rosa sarà, ancora una volta, il giro di Ginettaccio.
Come si può raccontare la vita di un uomo, di uno schivo per educazione e carattere, di una generosità manifestata ma personalmente taciuta, di un eroe di paese, di una collocazione in un periodo storico dal quale l’uomo altro prende le distanze? Lo si fa con le Biografie, ce ne sono tante. Oppure, la vita di Gino Bartali, si può raccontare cosi.
Se la vita di un uomo può essere rappresentata attraverso i numeri, quella di Bartali può essere narrata attraverso le sue imprese: sulle due ruote ha vinto tre Giri d’Italia, due Tour de France (record ancora imbattuto), quattro Milano-Sanremo, quattro Campionati Italiani e molto altro.
Se un uomo può essere identificato dalle fatiche e dalle soddisfazioni da queste riportate, le fatiche hanno il nome dei tornanti polverosi del Vars, o quelli delle Dolomiti, delle salite impervie e delle discese a rompicollo dell’Izoard e del Galibier, di strade di incredibili vittorie da divorare in fretta seduto in sella o in piedi sui pedali per sferzate più energiche mescolate a cadute più o meno rovinose, ruote bucate da riparare e catene sganciate a rallentare entusiasmo e pronostici in un’epoca di ciclismo povero e senza trucchi.
Se un uomo si può valutare in base ai suoi avversari allora il nome dell’avversario non può essere che quello di Fausto Coppi. Inizialmente suo gregario, ben presto quel ragazzo alessandrino divenne per Bartali il rivale per eccellenza, quello da non perdere mai di vista qualsiasi fossero le condizioni del terreno di sfida. Due personaggi diversi sui pedali e nella vita: cattolico e marito fedele Gino, laico e amante della Dama Bianca Fausto, con “sangue nelle vene” il primo, “benzina” il secondo, come scrisse di loro Curzio Malaparte. Rivali sempre, ma di una rivalità quasi cavalleresca; avversari ma mai nemici e, tra loro, una borraccia che passa di mano il 4 luglio 1952 in una tappa del Tour de France a suggellare il rispetto sportivo reciproco.
Se il carattere di un uomo si può circoscrivere in un soprannome, il soprannome in questo caso è Ginettaccio, la radiografia in lettere di un modo di fare e di porsi un po’ spigolosi, di una certa rudezza che nasceva dall’abitudine a parlar chiaro e dalla ritrosia che lo faceva rifuggire da ogni forma di encomio e adulazione. Uomo dalle numerose sfaccettature, schietto e burbero, spesso solo apparentemente brusco e scontroso, profondamente generoso e sensibile, devoto e amorevole con i propri familiari.
Se la vita di un uomo si può riassumere in una massima, la massima non può essere che questa: “Il bene si fa ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”. Oppure può essere il versetto del profeta Isaia (56,5) che recita: “Io darò loro, nella mia casa e tra le mie mura, un monumento (yad) e un nome (shem) più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” per un Giusto tra le Nazioni, come è stato nominato, postumo, nel 2013. O, ancora, dal Talmud: “Chi salva una vita salva il mondo intero”.
Se dell’uomo Bartali si vogliono raccontare anima e umanità, coraggio e ribellione a un sistema, allora bisogna ricordare la Medaglia d’Oro al Valore Civile che, nel 2006, a cinque anni dalla morte, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì a memoria di gesta eroiche.
Non si può raccontare Ginettaccio se non ci si ricorda che, prima di essere un campione del pedale, Gino fu un ragazzo della provincia toscana cresciuto e diventato adulto nel bel mezzo del decennio più caldo del Novecento. Nato il 18 luglio 1914 a Ponte a Ema, Firenze, da una famiglia povera di origine contadina, poco incline allo studio ma appassionato di biciclette, si dedicò presto al ciclismo cominciando a correre a diciassette anni e raggiungendo un grande successo unicamente con la tenacia e l’impegno al punto da diventare, fino al 1940, il protagonista indiscusso del ciclismo italiano e non solo.
Una vita pedalando tra grandi vittorie e piccole sconfitte in un contesto storico teatro di dinamiche politiche e culturali che non solo ne ha forgiato il carattere ma anche accompagnato, e rese possibili, scelte sportive e umane.
Erano gli anni del governo mussoliniano e di grande importanza attribuita allo sport elevato a simbolo di potenza e identità nazionale, dell’utopia dell’Uomo Nuovo di Nietzsche, un uomo che doveva possedere resistenza e potenza da utilizzare sia in tempo di pace che in tempo di guerra, dell’Opera Nazionale Balilla nelle scuole, l’educazione fisica legata all’esercizio intellettuale aggiungendovi il carattere militare per “inquadrare” i giovani dagli otto ai diciotto anni: la guerra “il sublime sport eroico”, l’atleta la variante civile del soldato. Di fatto lo sport diventò, da una parte, uno dei principali strumenti di consenso al regime, mentre, dall’altra, i successi dei vari campioni italiani venivano utilizzati dalla propaganda come altrettanti successi del sistema politico instaurato dal Duce. Furono sostenute ed esaltate tutte le discipline sportive a squadra mentre al ciclismo furono sempre attribuiti un sostegno e una considerazione tiepidi non intravedendo in quello sport, pur molto popolare, un vettore utile di propaganda fascista. Anche se sul piano internazionale poteva esibire campioni come Bartali, Binda e Guerra, il ciclismo era ritenuto poco in sintonia con l’immagine che il Fascismo voleva offrire di un’Italia nuova, modernizzata, lanciata verso il futuro, lontana dalla povertà; il ciclismo era il vecchio che sopravviveva mentre il futuro apparteneva al motore. E, soprattutto, si svolgeva per lo più sulla strada, uno spazio poco addomesticabile e il pubblico che si accalcava lungo le vie di una corsa in bicicletta non poteva essere manovrato, organizzato, disciplinato e indotto in quei rituali che, invece, dentro gli stadi, trovavano lo scenario più congeniale. Non è un caso se non esiste un ritratto di Mussolini in bicicletta e se, nelle diciotto edizioni del Giro d’Italia disputate sotto il regime, il Duce non volle mai presenziare a nessuna di queste. Non è neppure un caso se Gino Bartali, dopo la vittoria nella più importante gara del calendario internazionale, il Tour de France del 1938, ottenne una Medaglia al Valore Atletico soltanto d’argento e non fu ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini come, invece, era accaduto poco prima alla squadra italiana di calcio, in uniforme, dopo la conquista dei mondiali a Parigi. Non è un caso ma piuttosto lo scotto da pagare per Ginettaccio per non essersi lasciato sfruttare a fini propagandistici a fianco di Primo Carnera e della nazionale di calcio. Uomo libero e dai principi solidi qual era, Bartali mai si sarebbe prestato a figurante di interessi di parte al punto da continuare a rifiutare, tra le altre cose, di indossare, in pianta stabile, la camicia nera simbolo del partito.
Non si possono raccontare Gino, e le gesta di Gino uomo, senza ricordare il 14 luglio 1938, quando venne redatto il primo documento che parlava ufficialmente di razza ariana italiana attraverso il “Manifesto del razzismo italiano”, pubblicato sul primo numero della rivista “La difesa della razza” il 5 agosto 1938. Il testo, redatto da dieci docenti universitari, aveva tra i firmatari anche figure politiche di spicco quali Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Amintore Fanfani, Pietro Badoglio, Galeazzo Ciano; era diviso in punti e sanciva concetti ritenuti fondamentali per la preservazione della purezza della razza italiana. A breve Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre 1938, e successive modificazioni – firmato dall’allora Re Vittorio Emanuele III – potè varare le leggi razziali adeguandosi, di fatto, alla legislazione antisemitica della Germania nazista. Fino ad allora gli ebrei italiani erano circa 47mila su una popolazione italiana totale di oltre 41milioni di abitanti e vivevano integrati con il resto della popolazione ma, dalla definizione di razza alla discriminazione dei cittadini ebrei dalla vita sociale, dal mondo lavorativo e scolastico, il passo fu breve: con “La difesa della razza” la politica del regime nei confronti degli ebrei, e di altre minoranze, divenne metodica, scientifica e pianificata. Divenne razzismo di Stato e migliaia di ebrei italiani furono perseguitati, umiliati, messi alla fame, arrestati e poi spediti nei campi di sterminio a partire dal 13 dicembre 1943.
In quegli anni gli italiani si comportarono in maniera molto diversificata nei confronti dei loro connazionali di origine ebraica: in molti casi li aiutarono a sopravvivere e, al momento del bisogno, li nascosero e portarono in salvo; in altri casi, soprattutto nelle città più piccole, ne approfittarono per ricavare dei vantaggi economici e li denunciarono alle autorità. E Ginettaccio? Ginettaccio si inserì in una rete di aiuto clandestina diventando uno degli anelli più importanti della catena di salvataggio tra Firenze e Assisi per fornire documenti di identità contraffatti, foto tessere, lettere dell’organizzazione di resistenza all’Olocausto ad ebrei e altri perseguitati nascosti in Toscana e Umbria. Fra il settembre del ‘43 e il giugno del ‘44, Bartali percorse anche fino a 185 Km al giorno, avanti e indietro, ripetutamente tra le due province: la scusa erano gli allenamenti sportivi nella speranza che i militari in pattuglia non sapessero che le gare ufficiali erano state tutte sospese; lo scopo erano quei documenti nascosti nel tubo del telaio sotto la sella e che rappresentavano, per tanti, l’unica possibilità di salvezza dalla persecuzione nazifascista; la speranza era che a nessun soldato venisse l’idea di controllare non solo l’uomo ma di ispezionare anche la bicicletta: in quel caso la fucilazione sarebbe stata l’unica prospettiva certa. Avanti e indietro salvò, insieme ai compagni di rete, ottocento persone e, in prima persona, ospitò clandestinamente e nascose dalle retate naziste una famiglia di ebrei suoi amici, i Goldenberg. “Ci ha salvato la vita, non ne ho il minimo dubbio” dirà Giorgio Goldenberg dopo la morte di Gino. “Ci ha ridato il nostro onore quando eravamo poveri e sfiniti”. Bartali, il campione, ma anche l’eroe schivo e silenzioso, di queste imprese non aveva mai fatto cenno o confidenze con alcuno, se non con il figlio, ma sempre con pudore, con il solo senso di esempio di vita spesa per gli altri, come una classica raccomandazione tra genitore e figlio.
Non si può raccontare Ginettaccio senza ricordare la vittoria del Tour de France del 1948 a ridosso di quel clima di tensione in cui si trovava l’Italia devastata dalla tragedia nazifascista, dalle divisioni politiche e dagli sforzi della ricostruzione post-bellica, clima che era culminato con l’attentato a Palmiro Togliatti e autentica guerra civile con barricate, manifestanti e cortei in diverse città italiane. La maglia gialla che Bartali si sudò fu una vera e propria vittoria nazionale capace di riportare la calma in una nazione che sembrava allo sbando e gli accreditò non solo la celebrazione di quasi tutti i giornali sportivi ma anche la stima di tutti, compresi i religiosi e i politici di qualunque colore al punto che, Alcide De Gasperi, sentì più volte il bisogno di ringraziare pubblicamente il campione per quel suo ruolo di primo piano in una delle vicende più scottanti della storia.
Non si può non ricordarlo così, come l’umile che è riuscito, con la sua profonda italianità, a creare una generale concordia attorno al suo nome. Non si poteva ricordarlo in altro modo.
4 maggio 2018. 101esima edizione del Giro Rosa. Sarà ancora una volta il Giro del Ginettaccio. E gli amanti del Ciclismo saranno tutti lì, incollati agli schermi, come seduti su un paracarro di vecchie strade e sembrerà di vedere spuntare, dietro a una curva polverosa, distaccato dal gruppo, “quegli occhi allegri da italiano in gita”, la vincita di una scommessa con la vita.
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