DiarioXY . LUSSURIA
Hinneni. Eccomi
In 6 Febbraio 2021 da Chiara Menardo«Kein breire iz oich a breire. Significa Anche non avere scelta è una scelta».
No, quelle parole non potevano essere sue. Erano troppo falsamente sagge, troppo paghe delle circostanze. Isaac Bloch era molte cose, ma certo non era rassegnato.
Se non avere scelta fosse stata una scelta, Isaac Bloch avrebbe esaurito le scelte una volta al giorno dopo il 1938. Ma la famiglia aveva bisogno di lui, specie prima che la famiglia esistesse. Avevano bisogno che voltasse le spalle ai suoi nonni, ai suoi genitori e a cinque dei suoi fratelli. Avevano bisogno che si nascondesse in quella buca con Shlomo, che camminasse con le gambe rigide verso la Russia, mangiasse di notte la spazzatura altrui, si nascondesse, rubasse, rovistasse. Avevano bisogno che falsificasse documenti per salire a bordo di una nave e dicesse le bugie giuste al funzionario dell’immigrazione americano e lavorasse diciotto ore al giorno per fare in modo che il negozio continuasse a rendere.
Jonathan Safran Foer, Eccomi, 2016
E così, eccomi. Hinneni.
Isaac Bloch: fratello, marito, padre, nonno e bisnonno amorevole; impiccato con una cintura nella sua cucina.
Piedi in avanti, avvolto in un sudario senza tasche, non porto nulla con me. Come è giusto che sia.
Da giovane rimasi nascosto per giorni in un buco, come un topo di fogna. Ecco perché sono vivo. Io e Shlomo, i sopravvissuti, con addosso la colpa di non essere andati con gli altri. Nella gloria di non essere andati con gli altri.
Bel funerale, il mio. Secondo il rabbino abbiamo sostituito la Bibbia con il Diario di Anna Frank e siamo diventati un popolo muto, un fermo immagine, un eterno guardare ai morti, dimenticando i sopravvissuti. Ora sono anch’io tra i morti, un pezzo di memoria della terra fredda a Est, in Europa. Un pezzo di memoria di tutto quello che non ho vissuto, che non ho condiviso con la mia prima famiglia laggiù, in Polonia: madre, padre, fratelli, sorelle, nonni, zii e zie… non c’è più nessuno, a parte Shlomo e me. Non c’è più nessuno, a parte Shlomo.
Non ho mai provato vergogna per quello che ho fatto. Dovevo, ho deciso in un attimo.
Mi sono vergognato ogni momento della mia vita per quello che ho fatto. Potevo, avevo una scelta. Ho scelto.
Kein breire iz oich a breire.
Non ho nessun numero tatuato sul braccio, per questo ho pianto in silenzio ogni istante. Io ci sono stato mentre 6 milioni di esseri umani non c’erano più. Mia madre, mio padre, i miei cinque fratelli, non più. Il vicino di casa, laggiù in mezzo al freddo, non più. L’uomo incontrato una volta alla sinagoga, uno sguardo distratto e un cenno del capo, non più. Tutti coloro di cui mi ricordo, non più. Tutti coloro che non ho mai conosciuto, non più.
Io invece sono rimasto: ho vissuto piangendo.
Quando ho visto per la prima volta mia moglie, mentre mi innamoravo di lei, piangevo senza rumore. Ogni giorno della nostra vita in comune, tutti quei giorni e le ore: duecentomila ore di amore e di pianto muto e nascosto.
Quando il mio primo figlio è venuto al mondo, piangevo in silenzio e sorridevo. Non hanno visto quel pianto, non c’era tempo, non era il modo, l’occasione giusta per piangere.
Quando immaginavo la gioia di ogni Bar Mitzvah a venire: la festa e le montagne di cibo, il fruscio del rotolo della Torah e la voce incerta, appena mutata da bambino ad adulto, che recita a memoria il suo brano e ne parla, perché ora è grande e può avvicinarsi al mistero, piangevo.
Quando mi abbottonavo la cintura ben stretta sopra la pancia, quando giravo le chiavi del negozio nella toppa ogni mattina, quando sollevavo mio figlio sopra la testa per farlo volare e lui rideva forte, con la bocca aperta e tonda come un girasole e rideva, fino a che non gli veniva il singhiozzo. Io ridevo con lui. E piangevo, muto.
Non vedrò altri muri oltre quelli della mia casa. Ho detto di sì, sorridendo mentre, come in ogni istante della mia vita, piangevo in silenzio da qualche parte, in un ripostiglio ben chiuso dentro di me. Ho detto di sì, ho accettato la casa di riposo per noi ebrei vecchi sapendo che mai avrei lasciato le mie stanze in cui ho abitato con lei e con loro per tutti gli anni della mia seconda esistenza. Ho fatto i bagagli, guardato le donne venire ad avvolgere la mia vita in fogli di giornale tutti stropicciati. Ho annuito.
Ho chiacchierato con il rabbino quando è venuto a salutare, gli ho offerto pumpernickel e melone. Gli ho detto di andare a comprarmi della carta igienica, che al negozio in fondo alla strada era in saldo. Ho sorriso, ho teso ogni ruga. Piangevo.
Sono rimasto da solo. Una volta ancora.
Ho finito di piangere.
Il Bar Mitzvah di mio figlio, quello del mio primo nipote… non lo vedrò, il suo Bar Mitzvah, ma so cosa ha studiato, svogliato e forzato, e so le parole che dirà dopo. Abramo. Quello è il suo pezzo, lo abbiamo ripetuto insieme. Lo so che nipoti e bisnipoti in Dio non ci credono: il Bar Mitzvah lo facciamo perché lo facciamo, perché noi siamo ebrei e la questione qui si apre e si chiude.
Siamo un popolo ripiegato su miti che noi stessi creiamo. E io, come il resto dei miei fratelli passati, presenti e futuri, della mia vita ne ho fatto una storia che è anche altro. Ogni abitudine, dal pumpernickel e melone mangiati il pomeriggio, masticati in silenzio, con calma, con la reverenza di chi ha avuto fame: con mia moglie, poi con mio figlio, e poi con i miei nipoti, e i vicini, e il rabbino. C’è un qualche mito, in quel rito sempre uguale a se stesso.
La mia mancanza di pudore nel cambiarmi in pubblico. In piscina, in mezzo alle stanze, in negozio. Lo avrei fatto anche in sinagoga, se ce ne fosse stato bisogno. Il rossore dei nipoti che avrebbero, ogni volta, voluto essere altrove, ovunque tranne che lì, insieme al bisnonno che si leva gli abiti in mezzo alla gente. E “passate voi quello che ho passato io”, avrei voluto dirgli. Quando non hai vestiti a coprirti, scopri che il tuo corpo, tutto, va bene così. Non c’è differenza tra una mano e una natica: sono entrambe coperte di pelle, entrambe sudano e puzzano, hanno peli e pori, entrambe servono, entrambe sono dono di Dio, che le ha fatte. Un mito anche quello.
Dio, che si è ritirato per concederci spazio, si è nascosto perché non ci sarebbe stato alcun posto per noi nel suo tutto. È diventato un po’ meno tutto, ma non prima di dettare le regole. Non mescolare la carne e il latte nel pasto. Lascia che gli anziani ti tocchino dove e quando vogliono, è il loro Bar Mitzvah verso la morte. Non comprare mai e poi mai la Pepsi. Battiti il petto a ogni Yom Kippur, Per il peccato che abbiamo commesso davanti a Te con una espressione delle labbra… E per il peccato che abbiamo commesso davanti a Te apertamente o in segreto… E per il peccato che abbiamo commesso davanti a Te con cuore confuso…
Ormai, tanto, è tardi per battersi il petto. Tardi per tutti quei sogni che ancora avevo, io, vecchio ebreo scappato dopo essere stato quindici giorni nascosto come un topo di fogna in un buco per fuggire ai nazisti, nel lontano 1938. Qualche vita fa.
Anch’io mi sono contratto e nascosto, proprio come Dio. Mi chiederà se sono stato giusto, e io non saprò che rispondere. Sì? No? Forse? Mi sono appeso a una cintura, non sono un giusto.
Mi portano a spalle, avvolto in un sudario senza le tasche. Li sento che incespicano nelle buche, sento il silenzio e qualcuno che piange. Sento le auto passare. Conto quei passi fino alla buca scavata per terra, suicida in mezzo ai suicidi. La mia vergogna non conta nulla, la vergogna per ogni mio gesto ricade su chi viene dopo di me. Cade sopra chi resta, come le palate di terra che stanno coprendo piano il legno di questa mia ultima Arca.
Sei un mito anche tu, vero?
Hinneni.
Il libro…
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Titolo: Eccomi
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Autore: Jonathan Safran Foer
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Editore italiano, collana, traduttore, anno: Guanda, Tascabili Guanda. Narrativa, Irene Abigail Piccinini, 2017
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