Le opinioni superbe . SUPERBIA
I sette personaggi (al maschile) delle serie TV
In 25 Ottobre 2020 da Fabio MuzzioJames Tiberius Kirk: il viaggiatore instancabile con l’animo del playboy, artefice della fortuna di un attore canadese: William Shatner. Irruente ma dal cuore d’oro, nemico giurato delle ingiustizie e che per salvare una vita non si preoccupa delle conseguenze: quelle, semmai, saranno un problema successivo. La poltrona che preferisce non è quella del salotto ma quella del comando: facile dedurre che non sarà mai un pantofolaio. Kirk è l’eroe incosciente senza macchia e senza paura per antonomasia, che sfida la morte cercando di prendersene gioco. Infrange cuori in ogni dove, perché in fondo tra un porto da marinaio e un pianeta da astronauta non c’è differenza. Non si saprà mai godere la pensione: lui, più che guardarli, i cantieri li fa saltare in aria con un siluro fotonico.
Roger H. Sterling Jr.: quando nasci ricco e rampollo rischi di patire il paragone con un grande padre e se la madre si occupava di gestire te e la casa puoi finire per essere emotivamente dipendente da lei. E cosa ti resta? Portare avanti un lavoro ereditato e i soldi hanno un valore relativo e sono un mezzo per ottenere quello che vuoi. Roger è così: Bacco, tabacco e Venere come sono le giornate, la vita e il lavoro dell’agenzia in Mad Men. John Slattery, chiamato a impersonarlo, attraverserà crisi aziendali, il mondo che cambia, rapporti conflittuali, due infarti, un matrimonio in crisi e dall’epilogo scontato. Ci troviamo di fronte a un disincantato e cinico cinquantenne orgoglioso di aver combattuto in guerra, in fondo la cosa migliore mai fatta, dove ha imparato a detestare i giapponesi, e che arriva persino a vestirsi da Babbo Natale pur di portare a buon fine un affare con un cliente che vuole umiliarlo: e lui accetta. Nella sua vita, alla fine, oltre al socio Cooper, un secondo padre, c’è Dan Draper, incontrato casualmente e fortemente voluto in agenzia; con lui condivide i momenti creativi, gli alti e i bassi, in un’amicizia contrassegnata dal confronto generazionale e caratteriale. Amico sì ma non appena intuisce che può allungare le mani sulla moglie, non esista a provarci: donnaiolo e pure un po’ bastardo. Nessuno però gli tocchi la capricciosa figlia, l’altro grande amore della sua vita. E poi c’è Joan, la rossa dalle forme che non passano inosservate e a cui tutti puntano, con la quale ha una lunga relazione e con cui finirà per avere un figlio, frutto di una performance in un vicolo. Al pargolo lascerà un bel patrimonio non prima di essersi reso conto che era un regalo della vita e non un impiccio. È uno però di quei tipi che piange più per il lustrascarpe di fiducia morto che per la stessa sorte occorsa alla madre. La pace o forse felicità arriverà anche per lui: dopo una segretaria promossa a seconda moglie troverà nella suocera di Dan la donna che lo porterà a Parigi, un bel posto dove passare gli ultimi anni in una serenità agoniata e mai trovata fino a quel punto. Parigi, si sa, ha un qualcosa di magico.
Fonzie: il duro più a parole che nei fatti degli Happy Days ma anche l’outsider della storia. Credi sia un personaggio di contorno e lo ritrovi a essere il più amato non solo dalle ragazze con le quali, per esigenze di fascia oraria, è impegnato più a pomiciare che ad arrivare a situazioni più concrete sempre lasciate sullo sfondo. Ma la vita è pure una questione di look: il giubbottino in cotone risulta anonimo e più adatto per andare a scuola e mal si concilia con le abilità di un centauro provetto abile a far partire un juke-box con un pugno, a schioccare le dita e avere tre fanciulle attorno, oppure per il ruolo di meccanico che non sbaglia un giro di cacciavite. E allora gliene assegnano quasi subito uno di pelle dal quale non si stacca più: né quando pratica lo sci nautico, né quando va in ospedale. Non sa ammettere di aver sbagliato tanto che non riesce a pronunciare completamente la parola. Il punto debole è però la Milf dai capelli rossi: un po’ mamma un po’ donna che lo affascina, l’unica dalla quale si lascia sgridare e alla quale non dice mai no.
George Jefferson: il sogno americano e lo spirito imprenditoriale di chi appartiene a una minoranza e arriva alla ricchezza: non dimenticherà mai le origini ma la vive sempre come un’eterna rivendicazione. Partito con una lavanderia, acquistata grazie a un rimborso assicurativo, crea una catena e le giornate migliori sono quelle di pioggia, perché sporcano i vestiti e quindi c’è maggiore guadagno. Nato povero non ha problemi, anzi, ad adeguarsi a stili di vita più agiati, incarnando il prototipo di chi ce l’ha fatta e si gode il meritato successo. Si potrebbe definire il piccoletto, che anche in virtù dell’altezza penalizzante, ha faticato più di altri a imporsi e cerca la rivincita razziale: il bianco di pelle diventa oggetto, più in modo bonario che cattivo, la vittima preferita delle sue battute. Marito modello è il tipico borghese che conserva comunque un po’ quell’aria meno raffinata, che probabilmente spetta alla seconda generazione. Un altro suo bersaglio è il vicino, tipico english man, colto e raffinato. Non abbiamo mai capito se questi si sentisse un alieno in New York, di certo con George, con i baffetti di Sherman Hemsley, sicuramente meno solo, malgrado gli venga spesso chiusa la porta in faccia. L’unica a tenere testa a George è la domestica Florence, che mette subito in chiaro due cose: finestre e lampo non le fa. Giusto per far capire di non provarci e riportare all’attenzione la rivincita proletaria.
Simon Templar: chi non cadrebbe tra le braccia del Santo? Gentiluomo, giramondo, raffinato e con l’ideale aureola sulla testa sempre pronto ad aiutare i più deboli soprattutto se hanno la gonna e l’acconciatura cotonata. Maschilista il giusto, perché figlio del tempo in cui è stato creato, ha un passato di agente infiltrato nelle Resistenza che ha messo poi a frutto per buoni contatti e per sapersi muovere ovunque: come potrebbe alleggerire le casseforti e le teche di oggetti preziosi con tanta facilità? Guida meglio di un pilota conoscendo alla perfezione New York, Parigi, le Bahamas e la natia Londra: dopo una terribile scazzottata bastano due passate con la mano per far tornare perfetta la pettinatura. A volte si sostituisce al commissario di polizia, a volte diventa investigatore privato, a volte si erge a giudice anche dei comportamenti, tanto da non lesinare, a una rampolla un po’ ribelle e dai comportamenti sbarazzini, una lezione sui comportamenti:
Non mi dirmi che ti sentivi realmente attratta da lui!
Sì…
Si vede che ogni tanto le ragazze debbono curiosare anche tra le immondizie…
E la bionda fanciulla si zittisce.
David Addison: piacione, accomodante, apparentemente immaturo, e per dirla come la sua socia e inizialmente titolare dell’agenzia Madelyn “Maddie” Hayes, è uno che confonde la cultura per una birra scura (ovviamente la marca “Culture” esiste e la battuta rende meglio in originale mentre in italiano il senso si perde un po’). David, quando Bruce Willis stava per diventare la canotta più celebre della fine degli anni Ottanta, non pecca certo in autoironia nel considerarsi, come tutti gli uomini, incapace di masticare la gomma e pensare allo stesso momento (citazione celebre e politica). E così, tra un esibizione di limbo con l’attaccapanni come asta e una partita di strip poker con i dipendenti costantemente inoperosi, con i quali ha impostato un rapporto più di amico che da datore di lavoro, porta avanti la sua vita di investigatore privato evidenziando intuizioni decisive non appena ne ha la possibilità: in fondo basta quello. David è bello e simpatico, innamorato fin da subito della bionda che gli piomba in ufficio e che scambia per una “Miss Marzo” abbassando i celeberrimi occhiali a raggi X presi per corrispondenza. Abbiamo capito che è meno cazzone di quel che voglia apparire, proprio perché sa masticare una gomma e pensare allo stesso tempo. Ha però il pregio di non prendersi troppo sul serio, qualità non così diffusa; tuttavia, quando il gioco si fa duro in tutti sensi, riesce da avere la meglio sul rivale che è pure astronauta, altrettanto bello, ma senza la sua marcia in più. E la bionda, a quel punto, dopo aver ceduto al viaggiatore nello spazio, capitola con il socio.
J.R. Ewing: icona del cattivo dei cattivi per oltre dieci anni. Figlio legittimo dell’edonismo reganiano che ha pervaso il mondo. Facile dire che sia figlio di altro in un senso figurato con quelle sopracciglia quasi diaboliche e il sorriso beffardo che Larry Hagman ha saputo portare in TV e segnato stagioni e stagioni delle serate in un’epoca dove sembrava essere tutto (o solo) ostentazione, denaro, sesso, alcol e stronzaggine. Impareggiabile e spietato negli affari, anche per i metodi non sempre senza ombre, martirizza tutti: la moglie costantemente tradita, che comunque ricambia tra una bottiglia e l’altra, il fratello, come sempre “il buono, il corretto e l’onesto” su cui magari scaricare errori e colpe, sai che novità; e poi la cognata, la nipote, il fratellastro e via via tutti gli altri. L’avversario peggiore è quasi un parente, comunque acquisito, con una continua lotta derivante pure dalle ruggini ereditata dai rispettivi padri che si erano scornati e fregati fra loro. Quando parlano di esempi sbagliati per la famiglia ai nostri giorni ci si dimentica sempre quale prototipo sia stato introitato negli anni Ottanta. Con J.R. siamo diventati tutti petrolieri e profondi conoscitori de “Il Gigante”, quel Texas fatto di cappelloni da cowboy e aria condizionata. In fondo, seppur incarni il personaggio peggiore, l’effetto invidia e speranza di emulazione ha pervaso più di uno spettatore che al mattino iniziava a pendolare e si ritrovava a gestire scartoffie senza potersi comprare due dozzine di cravatte alla volta e, se finiva per allungare le mani sulla cognata, era più in stile Parenti serpenti che da ranch a stelle e strisce.
Mick Brisgau: immaginate di rimanere in coma dal 1988 per venti lunghi anni e risvegliarvi nel nuovo millennio dove, per esempio, è arrivato il Web. Comporterebbe più di un problema. Prendete un poliziotto dal buon fiuto ma dai metodi sbrigativi. A volte misogino e conservatore, di una donna, prima del ruolo sociale, prende in considerazione l’eventuale bellezza del posteriore: ecco il buon Brisgau. Guida una macchina uscita di produzione undici anni dopo avere preso la pallottola fatale: non è solo passione per le auto d’epoca ma un modo di essere. E la sua Open Diplomat non la molla e la guida ancora nel terzo millennio per le strade di Essen dove lavora. E qui scattano i problemi: il confronto generazionale con un compagno di investigazione giovane e tecnologico, una moglie che si è ricostruita una vita con un suo collega e una figlia che non ha visto crescere. Henning Baum, che a Essen ci è pure nato, presta sorriso e fisico a questo uomo che non disdegna avventure quando è possibile e non lesina battute a sfondo sessuale. I gusti di abbigliamento sono discutibili (a essere sinceri si possono etichettare come da tamarri) e quelli culinari da miglior amico del colesterolo e dei trigliceridi nell’era vegana e salutista. I contrasti non mancano, come l’estrema difficoltà ad adeguarsi, o meglio, accettare i cambiamenti, perché sei tu a doverlo fare. Last Cop gioca sull’effetto nostalgia per gli intermezzi musicali, per citare Carrie Bradshow “il meglio degli anni Ottanta”, pienamente in linea con il passato del personaggio e la sua generazione. Se si va oltre le sigarette costanti, andate pure quelle fuori moda, Mick ha forte senso dell’amicizia e della giustizia, sicuramente è un buono con sensibilità d’animo talvolta celata; siamo comunque sempre di fronte al prototipo dell’individuo che vuole rimanere nel passato e per il quale le musicassette sono meglio dell’mp3. Mica tanto diverso dai tanti utenti che popolano i Social e ci contornano nella vita: occupando pure posti decisionali e questo è il vero problema.
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