
INVIDIA . Lector In Invidia
Aggiungi un posto a tavola
In 6 Dicembre 2018 da Attilia Patri DPL’attualità e le notizie di cronaca che la riportano, a volte, sembrano essere buffe, assumendo un contorno di ironia, se non di vera e propria satira. Succede a Torino, per esempio, che un ristoratore mal accolga la presenza di quattro Down adulti all’interno di una compagnia di dieci persone con tavolo già prenotato per la cena. Succede che i quattro capiscano l’antifona e insieme a tutti gli altri lascino il locale e cambino ristorante tra un sospiro di sollievo solo temporaneo del titolare, scuse tardive, il malinteso assunto a discolpa, il Codacons che presenta un esposto in Procura per discriminazione e violazione delle disposizioni nazionali e internazionali sulle pari opportunità.
Succede, come del resto succedono tante storie di cronaca ordinaria che occupano trafiletti in pagine di giornale che devono essere riempite. Succede.
Succede il due dicembre a cavallo tra il primo, il Giorno di Rosa Parks, The Mother of the Civil Rights Movement, il giorno della disobbedienza che innesca diritti, e il tre dicembre Giornata internazionale delle persone con disabilità. Succede tra diritti spesso riconosciuti solo a parole e pari opportunità che inciampano sul primo gradino dimenticato lì a far barriera o sull’ottusità assopita fino a quando qualcosa non la solletica e la fa affiorare nella sua completezza. Succede tra date ricordate dalla Storia e altre ricordate dal calendario insieme ai santi e alle scadenze delle tasse.
La storia della conquista dei diritti è lunga quanto la storia dell’umanità ed è costellata di icone che ricordiamo sempre volentieri mentre spesso dimentichiamo l’esito e l’insegnamento che accompagna le loro figure, quasi mitologiche, e le loro gesta che additiamo come eroiche e rimaniamo un po’ così, avvolti, impanati di parole, ma piuttosto nudi e carenti nei fatti concreti.

Foto: © Getty
Quella sera del primo dicembre del 1955 a Montgomery, Alabama, Rosa Parks salì su un autobus che, come tutti gli autobus, per disposizione di un’ordinanza comunale, prevedeva posti separati per negri (allora si definivano ancora così, negroes) e bianchi, più un certo numero di posti comuni. Salì e occupò un posto comune ben sapendo che, per norma vigente, avrebbe dovuto cedere il posto al primo bianco che fosse salito. Aveva quarantadue anni, la stanchezza normale e solita dopo una giornata di lavoro in sartoria, e la stanchezza immane partorita dai continui soprusi per la gente come lei, diversamente bianca, da quel White only che appariva dappertutto, fuori dai ristoranti, dalle scuole più prestigiose, sui treni, che li escludeva da molte occupazioni e li condannava ad un salario più basso. Aveva la stanchezza del subire sempre e a prescindere, vero motore del suo rifiuto ad alzarsi quando, qualche fermata più in là, salì un bianco e il controllore la invitò, senza troppi complimenti, a cedergli il posto. La disobbedienza le costò l’arresto immediato ma diede il via ad un tam tam di passaparola, di diecimila volantini anonimi stampati in fretta e distribuiti, passati di mano in mano capillarmente, tra la comunità. Rosa Parks la scintilla, il fuoco la rivoluzione che ne seguì da parte dei vari centri attivisti per i diritti civili capitanati da un semi sconosciuto Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace nemmeno una decina d’anni dopo.
Il boicottaggio degli autobus andò avanti per 381 giorni, con il sostegno dei tassisti afroamericani che adeguarono le loro tariffe a quelle dei bus. Il 13 novembre 1956 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici giudicandola incostituzionale progredendo, poi, negli anni futuri, con politiche antidiscriminatorie che portarono all’accesso al diritto di voto e all’ammissione alle Università. Il resto è Storia contemporanea con Barack Obama alla Casa Bianca.
Nel 1999 Rosa Parks fu insignita della Medaglia d’oro del Congresso dall’allora Presidente Bill Clinton che per lei ebbe, tra le altre, queste parole: “Mettendosi a sedere, si alzò per difendere i diritti di tutti e la dignità dell’America”. Dignità!
Se “dignità” è la parola chiave di una società civile, allora, a Torino, in quel ristorante, in un’altra sera, molto più recente, recente al punto che non dovrebbe neanche esistere come storia, essere data per barriera superata, c’è stato un braccio di ferro tra la dignità di chi si è sentito sopportato al punto da alzarsi e andare altrove e quella sprofondata di chi non ha saputo accogliere, gestire, accampando scuse per non andare a picco del tutto, affondando comunque nella sua personale battaglia navale.
Dignità personale come valore da salvaguardare ogni volta che ci approcciamo con i diritti umani di tutti, con il principio della solidarietà, con l’uguaglianza sostanziale, con la discriminazione razzista gratuita, con la cultura, il credo religioso, la sessualità, la capacità cognitiva e fisica o la classe sociale di quelli che definiamo gli “altri”.
Ci si riempie la bocca in termini di aggregazione come multi- e intercultura, ci spacciamo per conoscitori del mondo dopo qualche viaggio ben confezionato da qualche agenzia, ci presentiamo come gli evoluti del terzo millennio che guardano a Marte, vogliamo prendere le distanze da un certo passato storico da condannare ma, per altri versi, si tende poi a ghettizzare, a manifestare intolleranza e razzismo più discreti, difficili da individuare, si promuove a oltranza l’esercizio diffuso del sì, ma, però…

Il Manifesto della Razza
La Scienza ha da tempo abbandonato il concetto di divisione degli uomini secondo il criterio delle diverse razze umane tanto caro, nel primo Novecento, al Lombroso i cui studi tentavano di dimostrare la possibilità di identificare “l’innata natura criminale” di alcuni individui attraverso le loro caratteristiche fisiche e, con lui, altri teorici si fecero divulgatori del razzismo scientifico secondo il quale, in Italia, esistevano almeno due razze, la eurasica, più pura, e la eurafricana, la razza più maledetta e più propensa alla criminalità. Più tardi il razzismo, l’idea di una razza superiore, la razza ariana italiana, e l’antisemitismo, vennero istituzionalizzati con le leggi razziali fasciste del settembre 1938 secondo i dogmi del Manifesto della Razza e adeguandoci, di fatto, alla legislazione antisemita della Germania nazista, tutta volta ad eliminare gli “indesiderabili” per il “bene dello Stato”.
I concetti razzisti e di pulizia etnica vennero poi successivamente ripudiati dall’Italia con la Costituzione Repubblicana con l’articolo tre, comma uno per l’uguaglianza formale e nel comma due per l’uguaglianza sostanziale.
Di fatto, sacche di resistenza sembrano persistere anche se in forme meno manifeste. Non lo dico io, lo dice la cronaca, lo raccontano le denunce alle forze dell’ordine.
Resistono gli atteggiamenti razzisti e xenofobi che si traducono in discriminazione, violenza verbale e violenza fisica dirette verso gli stranieri immigrati sia comunitari che extra; non ne sono esenti neanche quelli di seconda generazione e, perciò, italiani a tutti gli effetti. Un neorazzismo che crea dinamiche in grado di influenzare la politica e che si esercita nelle scuole, nella società, nei luoghi di svago.
Non tanto diversa è la discriminazione verso le diversità, quelle diversità che diventano, per alcuni, motivo di fastidio e di linciaggio. Si parla di rispetto dei diritti e di principi di solidarietà formalmente per, poi, creare confini, disumanizzare gruppi di persone, considerare i diversi un problema, cucirgli addosso leggende metropolitane, costruire un ordine a piramide con, all’apice, i “giusti”, i desiderabili, e, alla base, i reietti, da deridere, punire, lasciare fuori come uno scarto sociale da discarica.
Un esempio? La non tolleranza per l’omosessualità, considerata anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, fino al 17 maggio 1990, giorno del suo depennamento definitivo, una malattia mentale. La discriminazione sessuale e di identità di genere si manifestano in quasi tutti gli ambienti, famiglia, spesso, compresa, con le aggressioni verbali, le offese, le minacce, la diffamazione, le violenze fisiche e le psicologiche, non meno gravi nel lungo periodo. Pochi raccontano le angherie subite; ancora in meno denunciano alle autorità o a qualche associazione gay. Di fatto manca ancora una legge, manca il riconoscimento di “reato di discriminazione e istigazione all’odio e alla violenza omofobica” e una relativa condanna specifica. Anche per gay e lesbiche c’è una Giornata dedicata, ma la legge di tutela è ferma in Senato da più di quattro anni.
Strettamente legato alla discriminazione per l’orientamento sessuale è quella per i portatori del virus dell’HIV, considerati, da alcuni, alla stregua di moderni untori e, perciò, tenuti alla larga facendo scudo con pregiudizi e scarsa informazione sulle metodologie di contagio. Essere sieropositivi non significa avere l’AIDS ma essere nelle condizioni di condurre una vita normale, di lavorare, di poter intraprendere una carriera e arrivarne ai vertici. Sempre che nessuno additi, infanghi, costruisca aneddoti inutili e limitanti.
Tanti bei discorsetti di circostanza ma non se la passano meglio i disabili per quanto riguarda l’inclusione nella società. E non parliamo delle barriere architettoniche perché si sa, ci sono, e ci vogliono volontà, buon senso e mezzi economici per rimuoverle, e non riusciamo mai a capire fino in fondo quale di questi tre valori, nel nostro Paese, sia il più carente. Parliamo invece di accoglienza tra quelli che definiamo “normali”, quando e se accoglienza c’è o, piuttosto, non ci si limiti a girare la testa, a provare fastidio o, al contrario, a esercitare attenzione, gentilezza, aiuto forzati. Ecco, problemi ne hanno e, spesso, anche tanti. Non mettiamoci anche noi a sottolinearli e a sommarci ai già esistenti.
Da ultimo ho lasciato quella condizione che si chiama povertà e fatta di tante cose che non sono solo la mancanza di reddito, di lavoro, o l’incapacità di provvedere alla propria sussistenza. È la miseria della fragilità, dell’isolamento, della paura del futuro quando neanche si ha un presente. È la miseria dell’indifferenza, dello scarto sociale, della panchina come luogo di rifugio a cui aggrapparsi sempre che non passi di lì qualcuno, umanamente più misero dentro, e non cominci, per noia, a giocare con benzina e fiammiferi rinfrancandosi al pensiero che questo qui, questo barbone, questo nessuno, chi vuoi mai che se lo reclami.
Basta guardarci attorno e vediamo che tutto questo succede mentre abbiamo la testa persa a ricordare dove abbiamo messo la scatola con i pezzi del presepe da ricomporre, quella scatola sempre su e giù: dal salotto, nei giorni predisposti al bene per eccellenza, alla cantina, per tutto il resto dell’anno. La scatola della rappresentazione dell’accoglienza, del diverso, del povero, ridotto a teatrino per i giorni di festa ma asciutto di reali significati.
Su e giù tra teoria dell’altro e pratica dell’altro, tra il dire e il fare. Come, del resto, quasi sempre.
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