INVIDIA . Lector In Invidia
Mark dall’alto del trespolo
In 12 Settembre 2016 da Attilia Patri DPCaro Mark Elliot Zuckerberg,
permettimi di darti del tu e di chiamarti per nome dentro questa specie di casa del “Grande fratello” che tu hai ideato e dove tu sei il capobanda indiscusso, l’amico “più avanti” che in questa nostra grande compagnia ha lanciato per primo l’idea e in tanti ti abbiamo seguito.
Ti scrivo sperando che il mio messaggio ti raggiunga lì a Palo Alto, che già il nome, per me che quando leggo ribalto le parole in immagini, mi dà l’impressione di trespolo su cui tu appollaiato vedi il viavai nel movimento quasi infinito di account, bacheche, post, foto, commenti e tutto quel gran ben di dio che circola e che, neanche tanto in fondo in fondo, ti fa comodo.
Ed è da qui, dall’alto del tuo trespolo, dall’alto del tuo altarino un po’ improvvisato, che tu hai deciso, un bel giorno, in un dato momento, di bollare con il marchio Tabù un’immagine. Non un’immagine qualsiasi, sia mai… Non quelle immagini che circolano senza senso alcuno con bambini o adulti affetti da qualche malattia e che riportano quelle frasi insulse che lette da lobotomizzati continuano a essere condivise. Macché!
Tu, sempre dall’alto, ti sei incaponito su un’immagine particolare, una foto. Anzi, su quella che tu ritenevi un’immagine, una foto ma che, invece, tutto il resto dell’Umanità pensante riteneva un simbolo. Un simbolo anche per la commissione del Premio Pulitzer che, in quella immagine, aveva visto un messaggio universalmente comprensibile che rimandava, senza ombra di dubbio, senza se e senza ma, a una situazione bellica precisa, collocabile in una data precisa: non una guerra prima, né una guerra dopo e neanche una parallela. Quella e basta, quella del Vietnam. O del napalm, se preferisci.
Quindi non un’immagine, una foto, ma un simbolo. E il simbolo è leggibile: la bambina nuda che scappa; Kim Phuk è il suo nome; nove anni, la sua età; l’8 giugno 1972, il giorno; Trang Bang a pochi chilometri da Saigon, il luogo; il bombardamento con bombe al napalm l’evento che Nick Ut celebra col clic della sua macchina fotografica. Anzi, a dirla tutta, se ci si concentra un pochino, del simbolo si potrebbero cogliere anche i rumori, gli odori, i colori anche se è tutto in bianco e nero ed è solo carta. Anzi, a dirla tutta tutta, basterebbe cogliere gli odori e ti accorgeresti che i rumori e i colori del contesto sono una loro necessaria e meccanica derivazione.
Capisco che tu, essendo giovane, non c’eri in quel periodo, però potevi documentarti meglio su quel prodotto chimico, non tanto per gli elementi costituenti la sua formula ma, piuttosto, per quel che rappresentava il suo utilizzo e quel che significavano i suoi effetti. Perché vedi, Mark, mi hai dato l’impressione di un approccio, a quello che per te era un “problema”, un po’ affrettato, superficiale, senza particolari capacità di analisi e con scarsa propensione ai collegamenti logici di base.
Ecco! Se tu avessi capito il “significato” del napalm avresti capito il significato della foto, senza bisogno di ragionamenti astrusi, servito su un piatto d’argento.
Chi in quegli anni (e negli anni immediatamente a venire) c’era, il napalm lo respirava ovunque, o meglio, immaginava di respirarlo ovunque e con tutti i sensi possibili: con gli occhi insieme alle immagini dei telegiornali; nei fogli di carta stampata mescolato al piombo quando i fogli dei quotidiani erano ancora enormi; in quel filone dedicato di film (talmente tanti che ne abbiamo perso il conto); nell’anidride carbonica che esce con le parole dalla bocca del Colonnello Kurtz di Apocalypse Now, tanto per ricordarne uno; si respirava con le orecchie con quel “No” detto da Cassius Clay che, già campione del mondo, rifiutava un incontro di boxe in Vietnam anche se gli sarebbe costato il ritiro della licenza di pugile; con il vinile ascoltando i mille e più brani ed elevando “Aquarius” del film “Hair” la canzone contro la guerra per eccellenza; al liceo nelle tracce dei compiti in classe di Italiano, quando tra queste c’era l’argomento facile, sicuro, garantito nell’esito positivo della pertinenza; difficilmente saresti andato “fuori tema” e qualcosa da scrivere lo avresti trovato perché, anche se abitavi lontano, quella era “l’atmosfera” al punto che, anche i meno dotati di fantasia, non facevano fatica a immaginare fuochi, paludi, elmetti mimetizzati e intere generazioni di ragazzi mandate al macero.
Tu, invece, sei andato fuori argomento, fuori tema, con quel tuo maldestro tentativo di processo alle intenzioni. La bambina è nuda. E allora? Cosa succederà mai? Offende la morale terra-terra? Istiga e solletica pensieri turpi? Ma siamo seri e, soprattutto, obiettivi perché, così, ci stai offendendo! Ci stai dicendo, senza tanti giri di parole, che siamo guardoni viscidi e con impulsi pedofili da bassifondi. Se a te sembra poco… Ognuno nel nucleo più intimo della propria morale o coscienza è quello che è ma, di sicuro, anche il più moralmente scorretto e abietto è in grado di trovare altre immagini che, con maggiori potenzialità, possano risvegliare e rimpolpare impulsi indicibili.
Tu, Mark, nel tuo modo un po’ pressapochista di “far pulizia” e censura ti sei fermato sul dettaglio sbagliato di quel corpo. Ne hai visto la nudità mentre eri orbo per gli altri dettagli. Avresti dovuto guardare in modo più approfondito, spostare le pupille sui visi e, allora, ti saresti accorto di altri dettagli come gli angoli delle bocche di tutti i protagonisti della foto. Bocche con gli angoli all’ingiù come le maschere delle tragedie greche. Tragedie greche! Gli anni a.C. e bastava il dettaglio degli angoli delle bocche all’ingiù o all’insù per capire l’argomento, per intuire dove si sarebbe andati a parare. Adesso no! Tu no! Duemilacinquecento anni dopo (anno più, anno meno) arrivi tu e, tu, non vedi gli angoli che formano spigoli e, tu, dal tuo trespolo, sbatti contro lo spigolo della superficialità. E la superficialità ti rende cieco di fronte all’obiettività e ci indichi una strada di visione sbagliata e ridotta, spogliando e deturpando i contenuti e ci fai vedere, per la prima volta, la bambina nella sua nudità integrale, ma quella bambina l’hai spogliata tu con l’occhio del moderno censore che, forse un po’ strabico, guarda nella direzione sbagliata.
Sbagliata, tu, con quel tuo agire bislacco e supponente, hai fatto sentire anche quella ex-bambina che oggi vive in Canada, è ambasciatrice della pace per l’Unesco e dirige una fondazione per aiutare i bambini vittime di guerra e che, per quella foto, certo non si è mai vergognata e, tanto meno, si è fatta problemi di privacy.
E se è vero che “è bene tutto quel che finisce bene” e la fotografia è stata reintegrata, non vorrei mai che nel prossimo giro di perlustrazione fatto un po’ alla carlona ti venisse in mente di censurare la fotografia del bacio, quello tanto famoso, quello tra due perfetti sconosciuti, quello che, con un clic di macchina fotografica, Alfred Eisenstaedt in Times Square il 14 agosto 1945 alla fine della Seconda guerra mondiale ha immortalato e consegnato all’Umanità. Quel bacio indica la fine di quella guerra, non una guerra prima, né una guerra dopo, né una parallela.
Concludo ricordandoti che sarebbe veramente una caduta di stile se tu pensassi, guardando quelle labbra e quell’impeto, che, il solo osservarli, potesse istigare qualche Lupo Mannaro a cercare per strada moderne Cappuccetti Rossi che, naturalmente, per la finta morale comune, era meglio che rimanessero a casa e non andassero a cercarsela.
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