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Gioventù bruciata versione 2017

In 23 Novembre 2017 da Redazione Seven Blog

C’è una rivoluzione in atto. In tutto il mondo ma particolarmente accentuata nel nostro Paese. Una rivoluzione, forse anche  più dirompente di quella tecnologica, che sta cambiando i connotati della società e ha un forte impatto sugli individui che la compongono. È una rivoluzione misurabile sia in termini quantitativi che qualitativi e che spinge, non solo, a reinterpretare alcune delle fasi della vita ma ne cambia aspettative e rappresentazioni sociali. È una rivoluzione che ha a che fare, sul piano quantitativo, con la maggiore longevità, l’invecchiamento e le migliori condizioni di salute anche in età avanzata, mentre, sul piano qualitativo, ha a che fare con i ruoli sociali, gli stili di vita, le aspettative personali, i consumi e le sfide che i cambiamenti impongono. È la rivoluzione demografica. Porta con sé, inevitabilmente, modifiche importanti sia nel modo di vivere che nell’interpretare la vita nel quotidiano e tocca tutte le fasce d’età: dalle culle tendenti allo zero o alla bassa natalità, ai giovani che stanno sperimentando una nuova, e spesso lunga, condizione a cavallo tra adolescenza ed età adulta, fino alla generazione che una volta non si esitava a definire “anziana”, quella dei sessantacinque – settant’anni che, oggi, necessita non solo di nuovi termini per essere definita ma anche di nuovi modelli  di riferimento; una generazione in esplorazione ancora lontana da quei canoni tradizionali tipici legati alla vecchiaia vecchio stampo.

In termini quantitativi, secondo gli ultimi rilevamenti Istat, la popolazione dei senior (55-74 anni) risulta aver ormai superato quella dei giovani adulti (15-34 anni) di oltre un milione e mezzo di unità e si prevede che il divario sarà di circa cinque milioni nel 2030. Un mondo di vecchi –  alla quale si deve aggiungere anche la fascia oltre i 74 – o di giovani vecchi, se li vogliamo chiamare così, sposando la tesi di Gabriel Garcia Marquez secondo la quale “l’età non è quanti anni hai ma quanti anni ti senti”.

In termini qualitativi di possibilità economiche, sia i dati del Rapporto 2017 curato dalla Fondazione Bruno Visentini (agosto 2017) che il Rapporto Futuro Anteriore della Caritas (pubblicato in questi giorni), indicano nella sfera degli over 65 quella più agiata. I dati sono sovrapponibili confermando uno status che si ripete da diversi anni e che ulteriormente sottolineano il peggioramento delle condizioni economiche dei giovani, soprattutto under 35: lavoro, patrimonio, casa e credito sono il fulcro del gap generazionale innescato dalla crisi. Si potrebbe ovviamente obiettare che sia normale che i cittadini più anziani siano economicamente più agiati per ragioni di esperienza, per convenzioni sociali o semplicemente per aver accumulato ricchezza nel tempo ma l’ovvietà scompare se si confrontano le giovani famiglie di oggi con quelle di pari età del 1995 anno pre crisi. “

“I dati ci dicono che i figli stanno peggio dei genitori e i nipoti stanno peggio dei nonni. La ricchezza media delle famiglie con giovani capofamiglia è meno della metà di quella registrata vent’anni fa e i giovani riescono a guadagnare l’autonomia dalla propria famiglia di origine in età sempre più avanzata”. Nella cornice della tabella numerica c’è un quadro che racconta di povertà economica ed esclusione sociale che tocca il 37%, di tassi di disoccupazione tra i più alti d’Europa, di ascensore sociale bloccato e davanti un futuro, un avvenire, non serenamente proiettato, dove si prende quello che c’è – anche con una sovraqualificazione – nel dilagare dell’uso di contratti non standard, nel lavoro a tempo parziale, nei voucher, nei lavoretti, nella manfrina del non ti pago ma fai curriculum, nel mi invento un’impresa con partita iva e incrocio le dita. Il più delle volte ci si accontenta, cercando di resistere senza perdere la dignità. Un quadro che impedisce a un’intera generazione di emanciparsi dall’appellativo di “bamboccioni”.

I dati ci dicono che è anche record di Neet, quelli che, ognuno per le proprie ragioni, non sono impegnati nello studio, nella formazione, nella ricerca di un lavoro: 3milioni e 278mila di inerti.

Dati che sottolineano una povertà che, in percentuale, dal 2007 ad oggi, ha falciato nella fascia di età  tra i diciotto e i trentaquattro anni e si è quintuplicata. Quella fascia che è arrivata alla soglia dell’età adulta proprio mentre sul mondo degli adulti piombava la Grande Recessione, se l’è trovata tutta addosso e ne sta portando le cicatrici; quella fascia così diversa da quella che vi è arrivata negli anni ‘90 del secolo scorso. Due generazioni a confronto: vent’anni di distanza anagrafica, un infinito in quella delle condizioni materiali di vita, di prospettive future, e capaci di incidere anche nelle capacità di reagire.

Se si confrontano le dinamiche “accesso al lavoro e stipendi”, a inizio carriera, tra i nati negli anni ‘50/‘69 e i nati nelle decadi successive, non si fa fatica a collocare la “C’era una volta la meglio gioventù” nel primo periodo di riferimento, l’era del posto fisso per antonomasia con quello strascico di benefit legati alla Cassa pensione, Cassa mutua, tredicesima mensilità e, a volte, anche quattordicesima, ferie pagate, liquidazione che non si chiamava ancora tfr. È evidente che per le nuove generazioni il sogno del benessere con pochi pensieri appare quanto mai remoto e quello che ci si può permettere di sperare oggi è di riuscire – quando si ha – a mantenere il lavoro e, magari, di innamorarsi di qualcuno con cui condividere le spese, come un’associazione di mutuo soccorso, ma rimandando la nascita di un figlio che ha sempre più il cordone ombelicale appeso alle ragioni e alle giuste cause del non-si-sa-mai.

Si pensa e si agisce in base alle entrate, ai soldi. I soldi dei quali non sarà elegante parlare, non saranno tutto nella vita, ma è innegabile che aiutino in parecchi frangenti e in tutte le generazioni: permettersi un alloggio dignitoso, mantenersi e affrancarsi dalla famiglia di origine, mettere da parte qualcosa che possa costituire vagamente un’idea di pensione, uscire qualche volta a cena fuori, fare le vacanze e tutta una serie di cose che, per quanto materiali e superflue, contribuiscono al benessere nella sfera personale. Si parla di soldi e si risponde con indipendenza, quell’indipendenza  registrata dai dati Eurostat e che indica come, per la prima volta da dieci anni, in Italia, sia scesa la quota di giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni che vivono ancora con i genitori. Riportato in numero uno su tre riesce a stare in piedi con le proprie gambe, ma rimaniamo comunque penultimi nel contesto europeo davanti soltanto alla Croazia.

Si parla di soldi destinati in grande quantità alle generazioni più adulte dimenticando di investirli, in modo idoneo, a favore di quelle più giovani e che tradotti in fatti potrebbero diventare opportunità, provvedimenti incisivi e posti veri di lavoro.

Si parla di soldi di appannaggio delle vecchie generazioni e di quelli, più limitati, delle nuove. Se c’è scontro generazionale  oggi non è più quello che si reggeva sui grandi movimenti storici, politici, sociali che fino ad un certo punto si sono susseguiti a cascata nel secolo scorso. No. Oggi, più che su scontri tra culture diverse, il conflitto padri-figli è di ordine pecuniario e affonda in radici lontane di scelte politiche e gestionali, di oculatezza non applicata e di paraocchi fin troppo utilizzati, che hanno portato a questa situazione globale di non soddisfazione e dove si cerca, per forza di cose, di tirarsi fuori e salvarsi da soli.

In Italia la voce salvezza passa, di solito, attraverso la voce “famiglia” con aiuti sotto forma di prestiti, donazioni quando si può o anche, più banalmente, attraverso quell’aiuto pratico con cui i nonni permettono ai propri figli di conciliare compiti familiari ed esigenze lavorative; in generale quella famiglia di origine che, un po’ in angoscia, ha perso da tempo la convinzione, e man mano anche solo la speranza, di figli con un futuro appagante, tracciato e stabilmente certo da un punto di vista economico. Quella famiglia che, dopo la salute, colloca nel futuro dei figli il più importante fattore di benessere. Quella famiglia che è stata ribaltata nei sensi unici abituali dell’aiuto e del sostegno: se prima l’aiuto partiva dai figli in sostegno alle difficoltà economiche dei genitori c’è stata negli ultimi decenni una virata epocale dove sembra che la paghetta che sovvenzionava gli adolescenti sia quanto mai necessaria in periodi di non serenità anche se adolescenti non si è più. Le vecchie generazioni, quelle ancora in grado di produrre risparmio per tempi meno floridi, certo non immaginavano che quei risparmi sarebbero serviti per far fronte alla quotidianità economicamente normale ma non garantita di figli e nipoti, di quelli che formano la generazione immobile.

La generazione immobile immersa in un Futuro Anteriore forse guarda a quella vecchia, quella dei Baby Boomers, quella nata tra il ‘45 e il ‘60, a quella già in pensione e a quella che nonostante potrebbe sta ancora ancorata alla professione soffocando gli spazi lavorativi, quella con il maggior potere d’acquisto, quella con quei nuovi vecchi che ormai non ci stanno più nel definirsi tali, che non si sono fatti mangiare dal tempo che passava ma hanno saputo adeguarsi alle novità, quella del sempre in pista, quella del boom economico e demografico, rivoluzioni culturali, lotte per i diritti civili, femminismo, rivoluzione sessuale, movimento hippie, Woodstock. Ribelle, concreta, politicamente e civilmente impegnata, cresciuta in un periodo di transizione e prosperità, credeva nella lotta per i propri diritti e nell’emancipazione dal bigottismo dominante.  Iniziava a lavorare subito dopo il diploma o la laurea ma un posto di lavoro lo trovava anche senza un titolo di studio e in età precoce. La fabbrica era, in genere, la grande mamma, lo sbocco per chi non aveva voglia o possibilità di studiare oppure la bottega degli artigiani: ci si entrava garzoni, senza arte né parte, si imparava un mestiere e si andava ad aprire bottega un po’ più in là. Alcuni di quella generazione hanno occupato, o occupano a tutt’oggi, posizioni di prestigio, cariche manageriali e direzioni di aziende, altri hanno potuto beneficiare del trattamento di baby-pensionati. Se una generazione si tramutasse in un film questa sarebbe “La dolce vita”; se si tramutasse in una colpa, per qualcuno, sarebbe quella di volersi tenere tutto a costo di sclerotizzare il sistema, quella di non voler farsi da parte per dare spazio al futuro dei dopo di loro, quella che si è presa il meglio lasciando sul piatto solo le briciole.

Vecchia e nuova generazione, il divario, il serpente che si morde la coda, lasciando la vecchia che guarda con ansia la nuova, quella dove i suoi discendenti sguazzano in un precariato più o meno stabile e per i quali occorre, quanto più in fretta possibile, rimuovere gli ostacoli lungo il percorso dell’auto-realizzazione e non lasciare un Paese in cui i giovani non hanno più una cittadinanza anagrafica ed economica; convincersi, una volta per tutte, che l’indignazione e lo scaricabarile di chi muove i fili non sono più interventi sufficienti e risolutivi.

“Quando la tua sagoma è arrivata a stagliarsi contro il cielo, al colmo, ti sei voltato, hai levato il berretto da rapper e l’hai sventolato verso di me. Eri troppo lontano perché potessi vederti in faccia, ma so che sorridevi. Poi mi hai dato le spalle, ti sei calcato di nuovo il berretto in testa e in pochi passi sei scomparso dietro il ciglio grigio della montagna. Ti ho chiamato – Aspettami! – non mi sentivi più. Finalmente potevo diventare vecchio” – Gli sdraiati , Michele Serra

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Tags: Baby Boomers, bamboccioni, cinema, disoccupazione, film, Fondazione Bruno Visentini, Francesca Archibugi, gabriel garcia marquez, Gioventù bruciata, Gli sdraiati, Grande Recessione, ISTAT, Michele Serra, Neet, precarietà, Rapporto Futuro Anteriore della Caritas, romanzo, voucher

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