INVIDIA . Lector In Invidia
Una di quelle, 20 febbraio 1958
In 20 Febbraio 2018 da Attilia Patri DPUna di quelle. In Narrativa è una novella di Giorgio Bianchi. Nel Cinema è un film drammatico del 1953 interpretato da Lea Padovani, Totò e Peppino De Filippo, con la regia di Aldo Fabrizi. In Grammatica è: una, articolo indeterminativo singolare femminile; di, preposizione semplice; quelle, aggettivo o pronome femminile plurale, indica lontananza nello spazio e nel tempo.
Nella società perbenista di ogni tempo quelle sono proprio quelle, sono donne e quelle diventa un aggettivo qualificativo, un contrassegno, un marchio infamante, un cerchio che raccoglie e separa un sottoinsieme ricavato da varia umanità; impersona un confine di divisione tra morale comune e amoralità in vendita su materasso; è l’altra riva del fiume senza ponte, la riva delle reiette da tenere a distanza, da non mescolare con le brave donne, più o meno pie, quelle a posto, senza macchia, da sposare.
Quelle sono quelle dalle quali pretendere quello che le perbene non offrono, vuoi per un senso di vergogna frenante, vuoi per le emicranie perenni offerte a profusione per indorare ed edulcorare i no, vuoi perché il tempo passa ma la solita solfa resiste e immobilizza lenzuola, vuoi perché, più che per amore e passione, sono lì per puro calcolo di sistemazione coniugale il più redditizia possibile. Donne perbene, onore al merito in mostra, frigidità imbevuta di educazione ai sani principi, da trascinare sottobraccio, testa alta, per le vie del centro tra saluti di deferenza. Tanto poi ci sono quelle.
Dietro a quelle, a volte, c’è una libera scelta, la scorciatoia preferita, senza se e senza ma, senza per forza dover dare giudizi, per raggiungere un benessere, un traguardo economico e di cose materiali facilmente conquistabili entrando nei giri giusti, almeno fino a che non sfumano età e avvenenza; spesso, invece, c’è un dramma di squallore e di sfruttamento, da sempre, ma ancor più negli anni del Dopoguerra italiano e fino al 1958: gli anni delle case chiuse, delle case di tolleranza, dei casini, dei bordelli, dei lupanari o come si vuole chiamarli, tanto il concetto non cambia: biglietto d’ingresso per i clienti, come al cinema; prestazioni di quelle, pagate a tempo; ricambio di merce assicurato, controlli igienico-sanitari spesso inesistenti ma decantati, discrezione per i frequentatori garantito per il buon nome dell’avventore.
Case chiuse alte, di lusso, con il fior fiore di clientela dell’alta società politica, economica, ecclesiastica e fior fiore di offerta in giovinezza e bellezza e case chiuse basse, più economiche, e con merce ormai in scadenza dopo anni di mestiere ma con la medesima finalità di sfogo, solo a più buon mercato. Tra alte e basse la stessa trafila tra proprietari nell’ombra, direttrici a sorvegliare e imbonire, ruffiani suggeritori, magnaccia fornitori di nuovi arrivi, portiere e altro personale a vario titolo impegnato da non stipendiare, se non con le mance di quelle e dei clienti; quelle impegnate a garantire, alla tenutaria, un certo numero di rapporti quotidiani con i clienti, spesso superiori ai trenta, costrette in orari incalzanti «dalle dieci all’una, dalle due alle otto, dalle nove alle ventiquattro, non ti lasciano che il tempo di mangiare e di lavarti la faccia», per garantire una resa economica massima, non godendo neppure di una stanza singola e, a volte, nemmeno di un proprio materasso; ricatti e minacce di allontanamento dalla casa gli spauracchi che diventano incentivi per ogni surplus richiesto; medici a compilare libretti sanitari e da ungere per bene perché chiudessero un occhio, questura a fare liste e produrre schede di nomi difficilmente riscattabili sul piano sociale futuro.
Diventare una di quelle era come firmare un contratto a vita dal quale affrancarsi richiedeva tempo, forza di volontà, buona condotta, salute e mezzi, un lavoro onesto che nessuno dava a quelle in quanto erano state una di quelle e i documenti, il libretto di lavoro, parlavano chiaro e indicavano una denuncia, una condizione di provenienza, della quale era più facile approfittare che cercare di tendere concretamente una mano. Si tentava di uscire dalle case. Si tentava ma la caparbietà di intenti nell’intraprendere un percorso di vita alternativo mal si interfacciava con le vessazioni burocratiche e le segnalazioni discriminatorie. Finiti i pochi risparmi ci si rientrava con lo stesso carico di miseria, di sogni andati in malora, di angosce, di assillanti problemi e giovinezza ancor più sfiorita. E lì si rimaneva, con l’anima sfregiata, fino al prossimo tentativo, sperando fosse più fortunato. Fino a non tentare neanche più e finire per concepire la prostituzione e la casa come l’unica possibilità per la soddisfazione dei bisogni minimi per la sopravvivenza di sé e della propria famiglia.
Dal loro mondo, nessuna di noi torna indietro perché come in una giungla migliaia e migliaia di fili sottilissimi e forti ci tengono prigioniere.
Le donne, anzi quelle, che nel 1948 risiedevano in queste maison erano circa tremila suddivise in oltre settecento bordelli e tutto sotto gli occhi di tutti ma dietro il paravento di persiane chiuse e di tende tirate dove il non vedere, o il non voler vedere, si comprava a suon di benefit personali elargiti a piene mani, e in gran segreto, creando prosperità a chi avrebbe dovuto, invece, rilevare e denunciare. Case chiuse, di tolleranza, casini, bordelli o lupanari, non importa la definizione, rappresentarono, per gli storici del tempo, la “Prostituzione di Stato”, la prostituzione regolamentata, legalizzata, con le sue caratteristiche: necessaria, per ripulire le strade, per liberare i lampioni, per evitare le macchine adibite a garçonnière itineranti; etica, nel costituire una sorta di ghetto «il bene con il quale è contenuto, accerchiato e attenuato quel male» – secondo Benedetto Croce – ma dove le regole avevano i connotati, nemmeno tanto celati, di schiavitù come condizione sine qua non; da non chiudere assolutamente, perché – come si legge nel libello polemico Addio, Wanda! Rapporto Kensey sulla situazione italiana di Indro Montanelli:
Un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia.
Andare a casino non era considerato immorale dalla Chiesa, non era peccato, e non lo si doveva confessare al prete. Si viveva nella convinzione che le case chiuse servissero a preservare la distinzione tra moglie e donna di piacere, tra vergine e puttana, e che erano, in sintesi, la distinzione alla base dell’ordine sociale italiano e, quindi, sarebbe stato preferibile salvaguardare sia la convinzione che le case.
In Italia la società dov’è? Io in questo Paese vedo solo famiglie, in cui le lenzuola erano (in genere) pulite, solo perché i maschi potevano sporcare quelle dei bordelli. La famiglia, la famiglia all’italiana, funziona solo finché le figlie sono vergini, cioè finché hanno dinnanzi agli occhi lo spauracchio del lupanare, in caso di deviazione.
Un libro satirico che diventa specchio di mentalità diffusa in quel decennio al pari degli scritti del giornalista e saggista Gian Franco Venè: «Era un utile servizio pubblico, apprezzato dalle mogli per placare gli eccessivi bollori dei mariti, tenere lontane le amanti, preservare l’unità familiare, collaudare la maturità fisica dei figli».
Storie di peccati e di umane scappatoie di un decennio, sfruttando la situazione di quelle – come ben racconta il folto carteggio di lettere che molte prostitute, firmando o rimanendo nell’anonimato, inviarono alla Senatrice Merlin. Storie come quella della lettera n°2:
Onorevole, sono una di “quelle” e seguo con interesse quanto Lei vuol fare. Le dirò soltanto perché a 25 anni faccio questa vita. Ho fatto le scuole medie e poi mi sono impiegata. Il mio principale quando ha visto che sull’atto di nascita risultavo, senza mia colpa, figlia di N.N., ha subito preteso di approfittare di me. Il resto va da sé […].
O la n°3:
Gentile Senatore […] sono una di quelle ma non ero così e volevo crescere onesta, invece a 15 anni in una baracca mio cognato mi prese per forza e poi mi minacciò sempre di dirlo a mia sorella che ero stata io; appena mi accorsi di essere grossa scappai di casa […].
Oppure la n°4:
Senatrice Lina Merlin Senato della Repubblica, sono una ragazza di 28 anni, sono senza padre, in casa siamo in otto componenti, quattro grandi tutti disoccupati e quattro bimbi. […] Essendo disoccupata dal 1943 e avendo una bimba di nove (9) anni a carico, sono caduta anch’io in quel fango, ho dovuto vendere la mia carne […].
O la n°5:
Onorevole Deputatessa della Camera del Senato: […] Purtroppo ebbi un fidanzato mascalzone che sulla soglia del matrimonio mi lasciò, ed inoltre ebbi da lui un figlio che porta il mio nome. Non avevo io una occupazione e il mio stato non mi permetteva di fare molto. Cercavo ugualmente e disperatamente lavoro, ma non lo trovai. Quando arrivavo negli uffici tanti mi facevano proposte poco pulite, ma la fame nel mio stato era qualcosa di terribile ed infine una sera incontrai un signore che mi portò in un caffè nel centro di Milano. La questura quella sera venne in quel caffè, mi chiesero i documenti, ma essendo quel luogo un posto equivoco ed essi credendo che io ne fossi una frequentatrice, mi portarono in guardina e di lì iniziò la mia più nera storia. […].
Oppure la lettera denuncia della n°17:
Gent.ma Signora Senatrice […] Non è sufficiente che loro (i signori padroni) ricavano dall’incasso della ragazza la metà, e poi oltre della metà devono ricavare la pensione del mangiare sulla metà della ragazza, poi il soggiorno e poi in moltissime case devono pagare anche la luce, perché non gli venga tolta di notte. […] Alle signorine danno la bistecca di 70 o 80 grammi l’una e licenziano la cuoca su due piedi se per caso si dovesse sbagliare a darne di più. Perché poi il peso viene controllato dai signori padroni. […] Se capitano delle signorine che hanno la sfortuna di lavorare poco gli fanno tutti i dispetti diplomaticamente che sono costrette ad andarsene se anche sono in tristi condizioni finanziarie. Spessissime volte le mortificano nel modo più brutale che possa esistere e loro poverine piangono e devono fare silenzio perché se ricorrono alla questura, non possono più andare in nessuna casa d’Italia perché i padroni segnalano queste in tutte le case, e siccome tutti i padroni hanno delle pecche sull’anima ed allora per tema che queste siano delle spie della questura non vengono prese. Ecco perché mai nessuna ricorre alla questura, perché poi non può più lavorare.
O la lettera-denuncia n°68:
Egregia Signora […] io so che lei conosce perfettamente la nostra vita interna; io pur essendo in case di prima categoria le posso dire che anche qui la vita è durissima e spietata: visite rare e addomesticate a suon di quattrini, medici legati alle padrone, polizia legata alle padrone, magnaccia legati a personalità illustri, alla polizia, alle padrone. Oggetti da toeletta, vestiario, biancheria, persino il cibo extra, etc. deve essere acquistato internamente per far guadagnare ancora i padroni; non è vero che una donna può rifiutare qualche cosa al cliente… cliente scontento, rinnovo perso… e la voce corre e le case non vogliono donne “schizzinose” (così vengono chiamate le signorine che non si adattano a tutte le deviazioni paranoiche dei nostri clienti). Dicono che non abbiamo voglia di lavorare […] Poca voglia di lavorare!!! Una giornata speciale contai 120 clienti, 120 lavaggi, 2400 scalini saliti e scesi, e poi, come se non bastasse (tralascio i particolari di scurrilità) alcuni clienti quando hanno finito, ci fanno la morale e ci esortano a cambiar vita… dobbiamo salvare l’anima, ci dicono!!!
L’abolizione della regolamentazione della prostituzione divenne il cavallo di battaglia della Senatrice Merlin a partire dall’agosto del 1948, quando presentò in Parlamento una prima versione di legge nella quale, oltre alla chiusura delle case di tolleranza, si introducevano anche i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione stessa.
L’iter parlamentare fu lunghissimo, vivamente osteggiato per un intero decennio, fino alla definitiva approvazione: Legge 20 febbraio 1958 n°75 o, più semplicemente, Legge Merlin. Il 20 settembre 1958 la Legge divenne esecutiva. Le case avevano le finestre chiuse. Si spalancarono alla mezzanotte del 19 settembre 1958 al grido di “Arrangiatevi” come il titolo del film di Mauro Bolognini con Totò e Peppino De Filippo girato pochi mesi dopo l’entrata in vigore della norma.
Alla Senatrice Lina Merlin si devono tra l’altro:
- la formulazione dell’articolo della Costituzione che garantisce la parità tra uomo e donna;
- l’abolizione del Nomen Nescio, il discriminante N.N., che veniva apposto sugli atti anagrafici dei trovatelli;
- l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi in materia fiscale;
- l’eliminazione della disparità di legge tra figli adottivi e figli propri;
- la soppressione della cosiddetta clausola di nubilato nei contratti di lavoro che imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano.
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