INVIDIA . Lector In Invidia
Melania, Arvida e Katia sulla giostra del Tritatutto Mediatico
In 12 Ottobre 2017 da Attilia Patri DPSparlando di…
Il giro di Melania. Il passaggio del testimone dalla coppia Obama alla coppia Trump lasciava aperti mille e più interrogativi: quale sarebbe stata la condotta politica di Donald, quali progetti sociali della vecchia guardia sarebbero stati accolti, amplificati e quali, invece, stroncati immediatamente, quale predisposizione e apertura mentale all’accoglienza e all’integrazione animasse il nuovo arrivato alla Casa Bianca. Tuttavia, la domanda cardine per chi aveva visto in Barack e Michelle la realizzazione delle possibilità e del sogno americano, la coppia più bella del mondo di ultima generazione, la famiglia così vicina e in sintonia con le famiglie comuni era questa: che fine avrebbe fatto l’orto di Michelle. Chi avrebbe raccolto quella eredità bucolica intrisa di verdurine cresciute sotto occhi amorevoli, quella produzione e consumo a km 0, quel discorso di mangiar sano per campare cent’anni, possibilmente magri, sapendo che la First Lady entrante, alle carote, preferiva hamburger e pollo fritto e, alle zolle ordinatamente coltivate, il Tycon avrebbe preferito un campo da minigolf con otto buche e una riduzione dei giardini a favore di un più ampio spazio per il parcheggio dei suv degli ospiti.
Ecco che, del tutto inaspettatamente, dopo nove mesi di governo, Melania aiutata da alcuni studenti del Girls and Boys Club of Greater Washington si è messa al lavoro con rastrello e innaffiatoio raccogliendo e seminando ortaggi “fai da te”, mettendo in evidenza l’importanza del mangiar sano e riproponendo i temi dell’educazione alimentare e della lotta all’obesità tanto cari a Michelle. Quanto lei stessa ci creda, o quanta strategia per attirare le simpatie dal popolo americano ci sia, noi non ce lo chiediamo nemmeno. Noi prendiamo atto che, dopo nove mesi di governo, la sospirata risposta è arrivata: l’orto sopravviverà e lo spazio verde di South Lawn verrà rinvigorito.
Zappa e paletta tra le mani della signora Trump dovrebbero essere sufficienti per tranquillizzare e appagare animi inquieti e in ansia per eventuali destini infausti di cicoria e pomodori e invece no: nell’occhio ingordo social più che l’asparago o l’erba cipollina finisce il look scelto da Melania per la sua versione contadina: scarpe da tennis, jeans scuri, camicia scozzese rossa e guanti rossi ma rossi di un rosso in tinta con la camicia. “Non è una scelta che avrebbero fatto tutti”, commentano. “E perché avrebbe dovuto” verrebbe da rispondere. Commentano e criticano quella camicia all’apparenza casual ma che, di fatto, arriva dalla Casa di Moda Balmain, costo milletrecentoottanta dollari che, per una con un patrimonio familiare di diversi miliardi di dollari, fa lo stesso effetto della maglietta vecchia di bassa grande distribuzione che la gente comune utilizzerebbe, una tantum, per lavori sporchevoli nell’aiuola di casa. L’occhio invidioso e avido, il commento offensivo e gratuito di tanti si perde in sottigliezze. Peccato! Critica ma non coglie l’essenziale: la presa di posizione di Melania nei confronti del marito con orto che batte minigolf più parcheggio, l’alimentazione sana e l’ambiente positivo strumentali al benessere dei bambini personalmente approvati, la continuità dell’idea di Michelle mentre The Donald, in un Paese dove l’obesità è un grave problema sociale, ha inferto due colpi di grazia alla politica alimentare degli Obama rimandando ai ristoratori l’obbligo di indicare le calorie di ogni cibo nei menù e ha procrastinato il termine ultimo per le aziende alimentari di aggiornare le etichette con informazioni nutrizionali aggiuntive.
È ormai certo che, per quanto faccia di positivo, o si sforzi di fare, a Melania non si perdona nulla anche quando non ci sarebbe nulla da perdonare. Non si vuole santificare Melania ma è altrettanto inutile continuare a santificare Michelle.
Prezzo del giro: ci ha messo la faccia e la camicia. Ha salutato, si è scrollata di dosso la polvere, si è sfilata i guanti e il resto, doccia, cambio d’abito, controllatina ai bauli per non dimenticare nulla ed è volata a Toronto per il suo primo incarico ufficiale senza l’ingombrante Donald. E il Web rancoroso e becero? Non si è neanche girata. Avanti dritta tutta.
Il giro di Arvida. Arvida Byström, fotografa svedese, 25enne, brava, diretta, molto carina, bionda, pelle chiarissima, fisico asciutto, è stata scelta dal marchio Adidas e ingaggiata come testimonial nella Campagna pubblicitaria #Superstar per il rilancio delle storiche sneakers Originals80. All’apparenza la sua immagine non si discosterebbe molto dagli standard estetici che siamo abituati a incontrare sui nostri schermi, nei giornali patinati o incollati sui cartelloni mega. All’apparenza, appunto. Si discosta dall’ovvio per un dettaglio che non può sfuggire neanche ad un occhio poco attento, un dettaglio non dimenticato, non accidentale, ma voluto o, se vogliamo, gridato, ostentato: i peli, quelli normalmente definiti superflui, ben visibili sulle gambe e condizione sine qua non della sua presenza sul set Adidas.
Arvida e una pagina Instagram che conta 190mila follower. Avida che attraverso i suoi lavori cerca di combattere pregiudizi, conformismi, standard di genere. Arvida contro la depilazione femminile. Arvida e il suo concetto di femminilità anche ammaccata, segnata, espresso a chiare lettere: “La femminilità è una costruzione culturale. In realtà ognuno può essere femminile nel modo che preferisce. Chiunque può fare cose da donna e la società ha paura di questo”.
Quello del pelo superfluo rimane, oggettivamente, un tabù ancora adesso che si continua a parlare di bellezza al naturale e di messaggi body-positive in difesa degli inestetismi cutanei della pelle. E che sia ancora un tabù lo denuncia il fatto che la pubblicità di prodotti depilatori mostrino lamette, creme, cerette che scorrono su gambe e ascelle già lisce, quasi si volesse negare l’esistenza del pelo femminile mentre quello maschile viene ben evidenziato prima della rasatura. A ben vedere è un tabù che parte da lontano dal momento che le donne egiziane di tremila anni fa già si depilavano con una pallina di resina appiccicosa fatta scorrere ripetutamente sulle parti interessate provocando l’estirpazione dei peli, le giapponesi frizionavano sulle parti da trattare pelle di pescecane essiccata e finemente sminuzzata e nel Medioevo si arrivava a inserire aghi roventi nel bulbo pilifero pur di non vedere peli per un bel po’: ceretta ed elettro depilazione ad ago trovano in queste prime pratiche estetiche le loro radici.
Arvida che prova a rompere un cliché, a rovesciare i canoni della tradizione della cura del corpo e la sua decisione, come prevedibile, ha diviso il Web tra chi si complimenta e comprende l’atto di coraggio, femminismo, coerenza e chi, anziché farsi i peli suoi – è il caso di dirlo – inveisce al punto da manifestare non solo cattiverie in mille sfumature ma anche odio al punto da arrivare alle minacce, non solo già gravi di stupro, ma addirittura di morte. Puntuali come orologi svizzeri: insulti, offese, minacce formano il cocktail di benvenuto a lei riservato.
È evidente che a morire, oltre ai commenti che non meritano risposte, c’è la capacità di chi li ha digitati di comprendere il messaggio nella sua interezza: in un mondo dove tutto, o quasi, è apparenza, dove si fa del corpo il primo biglietto da visita, dove si tende all’omologazione dei tratti somatici, scegliersi per come si è, accettare i propri limiti estetici, non farne un complesso di presunta inferiorità, oltre a libertà, manifesta il rispetto per tutti gli altri valori che compongono l’essere individuo.
Prezzo del giro: ci ha messo la faccia e le gambe pelose. È tornata alla sua vita di fotografa portandosi dietro e parlando apertamente delle battaglie in cui crede. E il Web? Si è girata con queste parole: “Vi mando amore e cercate di ricordare che non tutti vivono allo stesso modo il loro essere delle persone”.
Il giro di Katia. Katia ormai la conosciamo tutti. Suo malgrado. Anche se aveva detto “Io ci sto” ma certamente non fino a quel punto. Katia che non dice no, anche se ne avrebbe la facoltà. Anche se ciò che i vertici della piramide aziendale in cui lavora le hanno chiesto è una proposta alla quale aderire è facoltativo. Facoltativo. Facoltativo, quando sei abbastanza giovane, con un posto di tutto rispetto, già abbastanza sollevata dal rasoterra della base aziendale, quando ti prospettano scatti e avanzamenti, quando tu, nella tua succursale, dovresti essere il fulcro di aggregazione dei colleghi, il collante della squadra che con te condivide non solo gli spazi ma gli obiettivi di un tutto più in alto di te, è una scelta che non vorresti neanche ti fosse lanciata. Molto meglio un obbligo. A un obbligo non ti puoi tirare indietro oppure puoi e accetti le conseguenze. Perché ci sono ambienti dove ci sono, inevitabilmente, conseguenze; ci sono altri in fila che non aspettano altro che un tuo traballamento. Facoltativo, se dici no, sembra quasi che non vuoi fare nemmeno un’ora in più da contratto o che te ne freghi. Un no da esprimere nel facoltativo ti può sembrare brutto oppure nessuno potrebbe capire il tuo punto di vista che lo motiva. Anzi, magari, o di sicuro, neanche te lo chiedono. Oppure può sembrarti divertente. Perché no? Tanto è un video Intrainternet, da far circolare nei piani alti della dirigenza al prossimo convegno, ma sempre tra di noi. Tra di noi. In teoria tutto visibile ai soli 88mila dipendenti (64mila in Italia). Partecipano anche le altre filiali, le domande sono semplici “qual è il bello del vostro lavoro”e “perché siete speciali per i vostri clienti”, un po’ di competizione, quattro video verranno selezionati e premiati. Sembra la saga di Fantozzi con la Coppa Cobram e il Direttore Totale. “Fate un lavoro di squadra, coinvolgete i vostri colleghi, mettete in moto le energie di tutti”. Nessun confezionamento particolare perché “non cerchiamo il nuovo Fellini, non serve Mastroianni ma un video originale, corale e, se volete, ironico”. Facoltativo. Guarda cosa mi tocca fare per campare. Facoltativo diventa Sì.
“Io ci sto! Ci metto la faccia, ci metto la testa, ci metto il mio cuore”, canta Katia insieme ai suoi collaboratori. Ne esce un video artigianale, goffo, grottesco, divertente, con dipendenti impacciati e poco intonati. D’altra parte perché mai un impiegato di banca dovrebbe essere intonato, o essere un buon intrattenitore?
Il classico video con un contenuto potente e con tutte le carte in regola per diventare virale. Peccato che sia un video privato. Privato fino a quando qualche manina maliziosa non lo ha inviato a terzi divulgatori e, in men che non si dica, è scoppiata la bomba sui Social e sulle app di messaggistica in un fermento inarrestabile: diventare virali senza essere vessati è una utopia e Katia viene eletta vittima di turno, schernita e derisa, messa alla gogna, alla mercé della piazza che ne vuole la testa e le dimissioni, bullizzata, crocefissa nel divertimento generale; ci si è dimenticati, nel vociare Web, di Katia come persona, un volto qualunque finito nelle tenaglie della morbosità collettiva; non esiste come sensibilità, storia, famiglia e ci si dimentica che oggi tocca a lei e ai suoi colleghi ma che se si entrasse in ogni ufficio e posto di lavoro con un telefono, e il tutto finisse online, ci sarebbe ben poco da ridere.
Katia ha solo fatto quello che, più o meno velatamente, viene imposto in molte aziende – quel modo di fare gruppo copiato dagli americani, dai quali sembra che importiamo solo il peggio – con il benestare dei sindacati che non potevano non sapere, anche se adesso si stracciano le vesti. L’azienda in questione avrebbe potuto disinnescare la bomba in faccia a Katia e ai suoi colleghi con un semplice “Anche noi ci stiamo”. Era un modo minimo per ritornare a una dimensione etica del lavoro. Non ci sono arrivati.
Prezzo del giro: ci ha messo la faccia, la testa, il cuore. Ne è uscito uno spezzatino o, più probabilmente, un trito fine di autostima andata a male. E il Web? Katia non risponde.
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