
INVIDIA . Lector In Invidia
Jackie chi?
In 2 Marzo 2017 da Attilia Patri DP

Natalie Portman, Jackie, Pablo Larraín, frame dal trailer. Fonte YouTube
Jackie – nei cinema dallo scorso giovedì 23 febbraio – è il film di Pablo Larraín in cui Natalie Portman interpreta magistralmente Jacqueline Lee Bouvier Kennedy raccontando i quattro giorni seguenti l’uccisione del marito John Fitzgerald Kennedy.
Un racconto di vita pubblica e privata, di comportamenti e atteggiamenti psicologici che accompagnarono quei fatidici quattro giorni e che rappresenta, di fatto, il sunto dell’essenza stessa di Jackie. Quattro giorni che, per la donna, segnarono il confine tra un prima lineare, altamente ordinato ma mai banale e un dopo burrascoso, altalenante, preda dei barracuda della cronaca rosa. Un prima e un dopo con al centro un fulcro, una data, 22 novembre 1963, e un luogo, Dallas e, nello scorrere delle ore, con indosso sempre lo stesso vestito, l’affacciarsi e l’affollarsi di mille domande che esigono risposte urgenti perché il tutto abbia comunque un senso e nulla vada perduto. Un guardarsi intorno in momenti in cui si sta vivendo la Storia ma la Storia sta già andando avanti e Lyndon Johnson ha già giurato perché nel Paese tutto possa proseguire con un certo ordine; ha occupato già il posto di chi c’era e in un attimo di sbigottimento generale non c’è più.
C’è urgenza di risposte che, in queste pagine di Storia che si stanno accavallando troppo rapidamente, lascino un punto fermo da ricordare non solo nei libri, a studenti o addetti ai lavori, ma a perenne memoria generale delle generazioni che verranno. C’è la necessità di consacrare al futuro l’immagine e il ricordo di un Presidente il cui mandato, così frettolosamente interrotto per mano di killer, risulta monco; di rendere perpetui quegli ideali inscritti nella sua politica che non potevano essere più promulgati e realizzati e che rischiavano di essere persi prima e dimenticati poi tra i meandri di altre correnti ideologiche; di consegnare l’uomo e l’irreprensibile contorno alle telecamere e al satellite perché arrivassero al mondo intero, quel mondo che, nel frattempo ha saputo dalla immagini tv, dalle voci in radio che quel Presidente era stato ucciso, fermato in qualche modo. Fermato oltre che in un percorso di vita personale anche nel suo percorso di impegno da Capo di Stato mentre si stava occupando di Spazio puntando alla Luna, di diritti civili dei neri ma, soprattutto, di Guerra Fredda, Berlino, Cuba e che si era fatto notare per alcuni grandi discorsi ma era ancora prematuro dire se e quanto fosse stato un grande Presidente.
Trovare le risposte per Jackie era urgente per evitare che tutto cadesse presto nell’oblio dei più. Con quel suo breve mandato tanto poteva sembrare poco quello che aveva fatto lui per la Storia americana, tanto, per la stessa Storia, avrebbe potuto fare lei: per lui, per se stessa, per i loro figli. Pur nel dolore straziante e intimo, senza lacrime pubbliche perché Jacqueline non pianse, come del resto non pianse nessun Kennedy, non soltanto perché non sta bene esibire certi dolori in pubblico ma perché, come spiegò una volta Ted Kennedy “se Dio è giusto, anche i ricchi e i potenti devono soffrire, non soltanto gli umili”, capì che, più che spezzare in due la sua vita, l’uccisione del marito era un evento fondante della sua stessa esistenza e della esistenza nella gloria negli anni a venire di JFK.
La risposta urgente, nella grandiosità del dramma, Jackie la trovò lì in quella frase: “Se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda” e a quelle poche parole si aggrappò con tutte le sue forze come chi sta affondando si aggrappa ad un’ancora di salvezza e la applicò alla lettera: dentro al gran teatro della Storia, come un’eroina shakespeariana, Jackie traghettò suo marito verso il mito e la sua celebrazione. Ma chi era Jackie? L’unica definizione di buon senso sarebbe “Jackie era Jackie“, un’icona, se non proprio l’unica e vera icona del ‘900; oppure si può tentare un breve ritratto senza cadere nelle tentazioni offerte dalle varie biografie che, a seconda di moti di simpatia o di astio, propongono immagini che vanno dalla beatificazione alla ricerca voluta della volgarità più scadente. Jackie era Jackie. Jackie era un prima di Kennedy, un durante Kennedy, un dopo Kennedy, e, ancora, un durante Onassis per tornare ad essere un accanto a Kennedy. Camaleontica in continua trasformazione in base al ruolo chiamata a ricoprire: prima Jacqueline Lee Bouvier detta Jackie, dal 12 settembre 1953 Jackie Kennedy, dal 20 ottobre 1968 Jackie Onassis o, più semplicemente Jackie O. First Lady dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963.
Una donna dalle mille facce, vanitosa, abbastanza cinica nel privato quanto falsamente ingenua nel pubblico; una donna di potere sempre attenta a curare la sua immagine; scelte di moda fatte di scolli a cratere e tailleur dal taglio geometrico, maniche a tre quarti, collana di perle e lunghezze sopra al ginocchio; e ancora tessuti bouclè, bottoni bold e colori pastello. Ha dettato mode, passioni, manie glamour di un’epoca; è stata lei il modello con il quale, più o meno inconsapevolmente, hanno dovuto misurarsi tutte le First Lady americane dagli anni ’60 in poi. Era la donna con l’ossessione per l’haute couture francese e, per questo, venne aspramente criticata durante la Campagna presidenziale: il “Jackie Look”, scopiazzato dalle boutique e dai grandi magazzini di ogni parte del mondo, rappresentava un gusto per l’esterofilo che mal si configurava risultando troppo distante dall’immagine patriottica che una First Lady a stelle e strisce doveva trasmettere. Per quieto vivere si affidò, allora, al designer americano Oleg Cassini che per lei confezionò più di trecento abiti consoni al suo ruolo guadagnandosi il titolo di “segretario di stile”. Al pari suscitavano critiche, da parte dei commentatori più bigotti e sciovinisti, la scelta di piatti francesi per i menù dei ricevimenti alla Casa Bianca ma ciò non le impedì di farla assurgere ad icona riconosciuta dell’eleganza occidentale. La sua innata abilità sociale ebbe effetti positivi sulle relazioni internazionali in particolar modo con Charles de Gaulle e con Nikita Kruscev. Sostenne finanziariamente le arti e le scienze e proprio l’interesse per l’arte, la musica e la cultura la portò a rivoluzionare anche lo svolgimento dei ricevimenti ufficiali circondandosi di artisti, celebrità e premi Nobel che parteciparono a pranzi e cerimonie, mescolandosi alle autorità politiche. Jackie era la First Lady indissolubile, l’anti casalinga in Chanel, la campionessa di bon ton e mondanità, la sposa da duemila invitati, la donna che piaceva al popolo e ai potenti. Si sa che ebbe una relazione con Bob Kennedy dopo l’assassinio del marito e più tardi si vociferò anche su una frequentazione con Ted. Fu l’amante occasionale di molti uomini e i ben informati dicono che, tra gli altri, a scaldare le sue lenzuola ci pensarono anche Warren Beatty, Paul Newman, Gregory Peck, Frank Sinatra, Marlon Brando; una femmina non tanto fedele, una Jackie trasgressiva inversamente proporzionale all’immagine pubblica: elegante, aggraziata e fredda nella sua veste ufficiale, sessualmente scatenata nella sua sottoveste ufficiosa. “Un’amante appassionata che aveva bisogno di altri uomini esattamente come suo marito John aveva bisogno di altre donne”, sintetizzando e un’assidua frequentatrice dei night più esclusivi di Manhattan nel tentativo di elaborare il lutto prima di convolare a nozze con Onassis, e ricominciare. Un ricominciare ma accompagnato da una fragilità ben nascosta dietro agli abiti e agli agi esclusivi. C’è un vuoto da colmare con razzie consumistiche al limite della follia che la portano a comprare, a Capri, trenta paia di sandali tutti uguali e, a Parigi, cinquanta indistinguibili foulard di Hermés. C’è una donna ancora giovane e bella che, affannosamente, ma sorridendo, si sente sfuggire da dentro il senso della vita. L'”affaire Onassis” più che un’unione di coppia è una cronaca turistica piena di sole, panorami, feste, riti del jet-set, paparazzi, invidie, pettegolezzi, calcoli, dolori. Jackie per gli americani è la donna che si è venduta al miglior offerente e la vedova nazionale viene declassata a grande mondana.
Jacqueline era la donna che a soli 21 anni diventa junior editor di Vogue lavorando prima negli uffici di Manhattan poi nella redazione di Parigi e, l’anno dopo, era entrata come reporter nel Washington Times Herald realizzando interviste in ambito politico-finanziario tra le quali spicca quella a Richard Nixon, l’uomo con cui il suo futuro marito avrebbe concorso, sconfiggendolo, alle elezioni presidenziali del 1960. Jackie è stata una delle più giovani First Lady che la Casa Bianca abbia ospitato e quella che, più di tutte, la Casa l’ha trasformata lasciando impronte indelebili del suo, seppur breve, passaggio. È la donna che, nel 1961, mise mano ampiamente agli arredi della residenza, dalle sale di rappresentanza a quelli delle stanze private, creando un apposito Comitato di Belle Arti. Al termine del restyling, nel febbraio 1962, Jackie concesse a Charles Collingwood della CBS un tour guidato della Casa Bianca per mostrare i risultati dell’intervento e il filmato le valse la vittoria di uno speciale Emmy Award. Fu la donna che per prima aprì una scuola all’interno della dimora presidenziale trasformando il solarium in un asilo regolarmente operativo con una decina di bambini affiancati da insegnanti professionisti. È stata la donna che, esasperata, citò in giudizio per molestie e violazione della privacy un famoso fotografo americano vincendo la causa.

PX 81-32:51 Jacqueline Bouvier, 1935. Photograph by David Berne, in the John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston.
Jackie è stata tante cose, tante donne; Jacqueline nasce a Southampton il 28/7/1929 solo per i documenti anagrafici; la vera Jackie nasce a Dallas il 22/11/1963 alle 12,29 ora locale sollecitata da uno sparo mentre in Italia è già sera e, con una Edizione Straordinaria del Telegiornale, vengono scandite le prime cronache: “Qui New York vi parla Ruggero Orlando”. Dal tailleur rosa macchiato di sangue, come un bozzolo che si schiude, si affacciava al mondo la regista Jackie che, pur mostrando nella sua personalità crepe dalle quali filtravano dolore e sconcerto per la tragedia, con determinazione, lucidità, ambizione che affascinano ma, insieme, mettono anche un po’ paura si appropriava dei meccanismi e delle esigenze della comunicazione e, quindi, del potere.
Pretese per il marito funerali di stato imponenti sullo stesso stile di quelli che erano stati riservati a Roosevelt e al Milite Ignoto, la tumulazione privilegiata sulla collina di Washington e la predisposizione, sulla tomba, di una fiamma eterna che lei stessa accese a fine celebrazione. Ottenne di seguire il feretro che attraversava la città a piedi, tenendo per mano i figli e senza preoccuparsi delle misure di sicurezza: i soli rumori nell’aria erano i battiti di tamburi desonorizzati e lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli; le ali di folla osservarono la vedova che, con un lungo velo nero che le celava il volto, tenendo per mano i suoi due bambini, conduceva il lungo corteo di persone addolorate. Attorno non si contava da tempo una tale presenza di presidenti, primi ministri e sangue reale a un funerale di stato: in totale duecentoventi personalità straniere di novantadue Paesi inclusa l’Unione Sovietica: le personalità passarono per lo più inosservate dietro la figura della vedova Jacqueline nella processione in Connecticut Avenue, processione che la NBC trasmise via satellite in ventitré Paesi inclusi Giappone e Unione Sovietica. Jackie portò fiera, per tutto il tragitto, quel senso della gravità di quel terribile frangente, interpretò per sé e per il mondo la dignità, la dignità d’altri tempi, di un’altra epoca. Il giorno dei funerali il London Evening Standard scrisse: “Jacqueline Kennedy ha dato al popolo americano una cosa che gli era sempre mancata: la regalità”.
In quei funerali si lesse, da una parte, la dedizione, la vera osmosi di Jackie con gli ideali politici del marito ma anche la costruzione di un mito da favola, il mito di Camelot: il mito che si fa Storia, la stanza dei bottoni, il suo re e i suoi cavalieri acquistano forma, dimensione, realtà, futuro e poco importa se dietro la nascita di un mito moderno c’è sempre un uso spregiudicato dei mass media. Quello della Camelot Kennediana, la corte di eletti del sapere e della politica che ruotava attorno al Presidente ucciso a Dallas, nacque nella cucina della Casa Bianca sette giorni dopo l’assassinio di JFK, complici un musical di successo e un giornalista amico della First Family. A lui, a Theodore White di Life, la più potente rivista illustrata del tempo, la vedova commissionò un articolo sul suggestivo parallelo tra la presidenza di Kennedy, così drammaticamente interrotta, e la leggendaria corte di Re Artù. L’idea di un cerchio magico intorno al primo inquilino della Casa Bianca formato da uomini valorosi e raffinati intellettuali capaci di “respingere i barbari oltre le mura del castello” piaceva a Jackie preoccupata di come la Storia avrebbe raccontato la personalità, le luci e le ombre di suo marito. White scrisse velocemente l’articolo per il giornale che stava per andare in macchina, lei controllò alle sue spalle le correzioni: almeno sette milioni di lettori videro la copertina a colori con Jackie vestita di nero con il velo e i suoi bambini vestiti di azzurro.
Tempo dopo il giornalista avrebbe raccontato di aver fatto solo “un atto di gentilezza nei confronti della vedova disperata di un leader appena assassinato”.
La magica Camelot di Kennedy, dunque, non era mai esistita ma il suo mito resiste ancora. Di Jackie, morta a New York il 19/5/1994 all’età di sessantacinque anni e che riposa accanto a JFK sotto la fiamma perenne, la questione nodale è la rappresentazione, la sovrapposizione tra spazio pubblico e privato le cui componenti si sono variamente sommate e divise, contaminate e trasformate per far sì che il mito esistesse e resistesse. Il mito di una presidenza, il mito di una donna, di un matrimonio, di un potere. Il mito di una vita che rimane, comunque, un mistero a dispetto delle tante biografie.
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