Io e il dottor Zeta, la ragazza Ics ed io
Zeta #12
In 16 Febbraio 2023 da Debora BorgognoniMi guarda col volto immerso nella nebbia. In questa foresta che non trattiene il nostro odore, che non ci chiede scusa per averci fatto perdere. Lei corre, scappa da me. Ogni tanto si gira. Non mi vede, lo capisco da come vaga con gli occhi, da come cerca un punto su cui posare le sue certezze. E invece il buio la inghiotte e la nebbia la copre. Corre con quel velo bianco che la rende irriconoscibile.
«Serena, fermati. Serena, dove scappi? Torniamo a casa, bambina; non allontanarti ancora o non ti troverò».
Lei sparisce di tanto in tanto, si dissolve nell’aria umida, nel nero profondo che non può contenere i nostri corpi. Li divora, li assorbe, li risputa.
Perché i nostri corpi sono fatti di ricordi e di peccati. Di quella sostanza melmosa che li compone, sono torbidi e inconsistenti, scivolano nel tatto e si disperdono nella terra.
«Quando eri lì in piedi, con quella pistola puntata contro la tua tempia, io ho pensato: Fallo. Non ho mai voluto ammetterlo, Serena, ma io l’ho desiderato. Perché tu mi hai trovato per odiarmi, per entrare di nuovo in una vita che io avevo scelto di scacciare come un verme che ti ritrovi nella mela mentre la stai morsicando. E mi hai imposto la tua vita, mi hai imposto un ricordo. Hai voluto che io ti chiedessi scusa per il male, per tua madre, per il rifiuto. Per l’abbandono. Ma io non vedevo il male, non vedevo il rifiuto. Vedevo una difesa, vedevo un me stesso col cuore troppo storpio per permettergli di decidere.
Ho amato Ingrid più di chiunque altra donna. È stata l’unica, forse. Io non sono certo di saper amare, ma con lei mi sono sforzato di impararlo. Non mi aveva dato scelta, con lei nulla era impossibile e tutto andava imparato. Ingrid era libera, era un gabbiano, un raggio di sole. E poi diventava all’improvviso una tempesta, un vento, un fulmine. Ingrid era energia. E io non ero niente. Lei ha solo sperato che io fossi un po’ quello che credevo di essere. Ma sperare lascia solo amarezza.
Ingrid era quella che danzava in una grotta a Granada, io quello che la ammirava bevendo un vino bianco caldo. Quello che non aveva il coraggio di accompagnare la musica che la rapiva, il suo corpo che non conosceva pudori. E così guardavo il soffitto, in quel semibuio nostalgico, in quel caldo mosso da una ventola sbilenca. Lei viveva e io morivo. Era il nostro destino.
Vuoi che ti racconti, Serena? Vuoi davvero sapere di tua madre? Vuoi sentire le mie parole disperate, lanciate ora in aria, in questo buio umido, in questa foresta che non ha nulla a che fare col sole che lei emanava? Perché era un sole accecante, il suo, Serena, ma era anche la più grande beffa che potesse vestirsi addosso. Una donna-sole che cercava l’ombra negli altri, guardandoli, analizzandoli come animaletti da esperimento. E io mi sentivo sempre sotto quella lente di ingrandimento che non rappresentava le mie proporzioni. Non ero io del tutto. Non ero io quando l’ho vista la prima volta, seduta sugli scaloni dell’università dove lei si è laureata e io no. Lei era così ammaliante, così sicura con gli altri. Si muoveva senza vergogna, si metteva in mostra, e forse per questo motivo, quel mattino, esisteva solo lei. Non ho potuto non vederla.
Non gliene fregava niente di me, sai? Non mi ha nemmeno guardato, com’era logico. Lei era oltremodo tutto. Io ero un giovane già vecchio che poi del resto così è rimasto, senza mai maturare veramente.
Si è interessata solo alla mia fotografia, qualche mese dopo, a quelle macchine medio formato che avevano una forma strana, diceva lei, perché dovevi guardare dentro dal pozzetto in alto. Ma la forma era come la mia, fuori luogo e fuori tempo; poteva sembrare affascinante a prima vista, finché poi scoprivi che non nascondeva nessun segreto.
Una sera era brilla. L’avevo fotografata per due ore e poi avevamo bevuto un vino portoghese, un vino verde, di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Lei mi aveva insegnato anche a bere vino verde. Si è seduta sulle mie gambe e ha detto che era ora che facessimo l’amore. Da allora, per quarantasette giorni, l’abbiamo fatto ovunque. Il sesso era per lei un canale immaginario con cui mettersi in mostra. Lei non vedeva me, era solo attratta da se stessa, dal fluire dei suoi desideri, dall’immagine di questo fotografo che teneva il tempo deciso da lei come meglio poteva.
Quarantasette giorni è durata, Serena. E tu quanti ne hai, di giorni, per dar voce ora a queste parole rimaste nella gola?
L’ho vista dopo un anno, non ricordo bene. Portava una carrozzina che sembrava passata attraverso ogni sorta di tempesta. Era svogliata, non emanava altro che grigio. Ho tentato di chiamarla ma era dall’altro lato della strada e non ha sentito. O ha fatto finta di non sentire.
Lei mi aveva già detto di essere rimasta incinta, dopo venti giorni dalla prima notte insieme. Non era vero. Diceva che mentiva spesso su quello, usava la presunta gravidanza come un’arma per tenere gli uomini a sé. Io mi sono chiesto il perché di quelle messinscene continue, senza però chiederlo a lei. Forse voleva semplicemente confessarmi che gli uomini tendevano a scappare da lei, voleva mettere in guardia anche me. Lo ripudiavo in quel momento, ma ne capivo il motivo. Pian piano cominciavo a capire tutto. La sua sete di vita era una lotta contro l’istinto di morte, Serena.
Quando per la seconda volta mi ha detto di essere rimasta incinta, io non le ho creduto. Perché ormai io non volevo più amarla.
Io, un uomo fin troppo ordinario, ero già entrato nella logica di quella presunzione sprezzante che mi sussurrava che lei mi stesse ingannando per riportarmi a sé. Era lei la più forte, era lei che aveva le carte giuste per vincere la partita, eppure io avevo già deciso di chiuderla, mischiare tutto il mazzo e tanti saluti.
Ingrid mi ha spezzato in due parti uguali. Fuori ero identico. Dentro ero un omino bianco e un omino nero. L’omino bianco decideva, l’omino nero cercava di ascoltare. Spesso dimenticava. Raramente controbatteva. Lei non poteva amare un uomo bianco. Tu non potevi conoscere il nero.
Ci ho provato, Serena, cosa credi? Credi che io non abbia cercato ardentemente di tenere quel passo di danza? Credi che io non abbia desiderato vivere d’arte? I due libri che tu hai letto non parlano di me, non sono me, sono stati scritti dal dottor Zeta, un uomo migliore. Sono un segno inconscio e postumo di fedeltà a Ingrid, a una donna che non sarebbe mai più tornata, era un dirle: Sono come tu mi vuoi, ecco la prova.
C’è sempre una scelta, Serena, ma io non la sapevo vedere. Ho preso la sua morte, il suo suicidio, come una colpa. Una colpa non mia, però. Una colpa della ricerca di follia di Ingrid, per la quale ha annientato anche me.
Piango, Serena, piango per lei, piango per te. Piango l’amore che non ho voluto vivere, la passione che ho rinchiuso in un cassetto insieme a quelle macchine fotografiche che ricordano ancora il suo corpo abbronzato. Piango quella pistola che hai tenuto fra le mani e che hai lanciato a terra, in quella terra polverosa, perché hai deciso di provare a vivere. Piango il tuo volto che forse non rivedrò mai più perché tu me lo neghi. Piango questo rispetto, perché dovrei incazzarmi e abbattere quel muro. E spiegarti questo padre che non so nemmeno io che forma abbia, questo uomo che comincia pian piano a sentire la colpa. Questo insegnante che non sa imparare.
Serena, voltati. Torniamo a casa. E vivi. Viviamo».
Lei si volta. Non è più Serena. È una ragazza nuova, una ragazza fragile, un bruco in cerca di due ali. È la ragazza Ics e mi sorride. Mi tende la mano. «Andiamo, dottor Zeta, il destino è nostro».
Mi sveglio, sono sudato. L’orologio appeso al muro scandisce il tempo con rumore. Tac tac tac. Non lo guardo, mi metto seduto. Mi gira la testa. Mi abituo al buio e non accendo la luce. Vado, cammino, attraverso il piccolo corridoio, entro nella stanza che sa di chimica e accendo una lampadina portatile. Prendo la sacca nera e ci infilo sei rullini e la tank, forbici e apribottiglie. Preparo la tank in pochi minuti e mi metto a sviluppare.
Mentre agito la tank e inalo questa chimica, penso a lei. Alla ragazza Ics. Penso che sta dormendo di là, penso a queste foto in bianco e nero che tra poco vedranno la luce. Penso a quello che ho colto di lei in tre giorni. È stato difficile, ma mi ha lasciato una pelle nuova, più buona, più fragile ma più vera, che sa di vita e non di mera teoria. Penso a quell’abito che mi ero riproposto di osservare e invece ho guardato di sfuggita per non metterla in imbarazzo. Penso a quelle mutandine in pizzo bianco che ho intravisto mentre si alzava la gonna per sedersi, e che erano più sexy del suo corpo completamente nudo.
Forse perché in quel momento lei era solo una donna e io solo un uomo. Poi è tornato il fotografo che mi divide dall’uomo. Però in entrambi i casi non ho più capito quale omino viveva in me, e mi è sembrato che il bianco e il nero stessero giocando insieme, si stessero abbracciando come vecchi amici.
La ragazza Ics sarà un’artista. Che ci creda o no, lei sì che la sarà. Lei ha un’anima che non scende a patti. Lei pulsa e mi ha insegnato finalmente a ballare.
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