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Tutta colpa di mio nonno
In 30 Ottobre 2020 da Gianluca PapadiaAdesso lo posso dire. La colpa di tutto ciò che sta accadendo è di mio nonno.
“Che ne sai tu dei comunisti” mi ripeteva ogni volta che indossavo la mia felpa con Che Guevara. Se fosse qui adesso, gli potrei rispondere, grazie nonno, adesso lo so. La deriva verso l’estrema destra che sta prendendo l’Europa è un segno che i fascisti sono sempre in agguato. Per non parlare del razzismo dilagante, l’omofobia, la paura per il diverso.
“Che ne sai tu della guerra” urlava quando tornavo da una manifestazione per la pace nel mondo. Questa pandemia caro nonno è proprio una guerra. Certo non si combatte al fronte come hai fatto tu, ma le conseguenze sociali sono le stesse.
“Che ne sai tu della fame e la carestia” era il suo commento quando non volevo mangiare il fegato con le cipolle. Quel pezzo di organo interno di non so quale animale, che aveva il sapore di chiodo arrugginito, mi faceva vomitare e a lui questa cosa lo mandava fuori di testa.
“Che ne sai tu della libertà” mi disse quando tornai a casa con l’orecchino al lobo sinistro.
Mio nonno era di poche parole ma quando parlava, lo faceva solo per ricordare quegli anni bui.
“Che ne sai tu dei fascisti” era la parola d’ordine per liberare i suoi racconti pieni di malinconia. Lui era un pescatore, di notte usciva in mare e la mattina spingeva il carretto tra i vicoli della città. Quando il regime impose il coprifuoco, solo ai grandi pescherecci fu concesso il permesso di uscire dal porto. Ai pescatori che avevano piccole imbarcazioni malridotte, fu vietato di prendere il largo.
“Che ne sai tu del coprifuoco” diceva sempre mio nonno quando iniziava a raccontare la sua vita da clandestino. Lui e altri pescatori erano stati costretti a trasportare le loro barche sulla spiaggia di Capo Miseno, limite nord del Golfo di Napoli. Questo significava farsi ogni giorno due ore di cammino all’andata e due ore di cammino al ritorno. Non potendo lasciare le barche in bella vista sulla spiaggia, le avevano nascoste nelle grotte che c’erano sotto il promontorio. Sempre di nascosto, avevano dovuto fissare degli anelli alle pareti per legare le barche.
“Che ne sai tu del lavoro duro” gridava ogni volta che raccontava di quando aveva dovuto lavorare aggrappato a quelle rocce come un granchio fellone. Tutte le estati, quando passavamo col traghetto che ci portava all’isola di Procida, mio nonno m’indicava le grotte dove aveva nascosto la sua barca. Ancora oggi, ogni volta che le vedo da lontano, mi riprometto di prendere una barca e andare a controllare se quegli anelli sono ancora lì.
Se fosse ancora qui gli direi: “Grazie nonno, adesso, per colpa tua, devo tornare a casa alle 23.”
“Che ne sai tu della notte” mi ripeteva parlandomi del coprifuoco. Quando venne istituito, mio nonno percorreva dieci chilometri per arrivare su quella maledetta spiaggia, si nascondeva tra la vegetazione e quando, finalmente il sole si era tuffato dietro il mare di Ischia, andava a recuperare la sua barca nella grotta. Per raggiungerla, lui e i suoi amici, avevano costruito delle zattere di fortuna con dei tronchi che il mare aveva portato a riva. Dopo aver rischiato di cadere in mare dalla zattera, liberavano le barche e iniziavano a calare le reti con la paura di essere scoperti da un momento all’altro. Oltre che dalle ronde fasciste dovevano nascondersi anche dai grandi pescherecci che erano pronti a denunciarli al primo avvistamento.
“Che ne sai tu delle spie” sussurrava quando lo costringevo a vedere i film di James Bond. Quando uno dei pescatori li aveva denunciati, lui e i suoi amici avevano passato più di un mese al confino. Le loro barche erano state affondate e con quelle, tutte le loro speranze di combattere la fame.
“Il coprifuoco serve a quello” diceva sempre mio nonno, “a toglierti tutte le speranze. Quando sarai vecchio, ti ricorderai solo delle cose che hai fatto di notte. Le esperienze più belle della giovinezza le fai di notte. Con il buio ti senti più forte, pronto a tutto. Il regime lo sa e cerca di negarti questa possibilità”.
L’elenco delle profezie negative di mio nonno è lunghissimo. Ogni volta che mi vedeva felice, subito trovava il modo di farmi tornare con i piedi per terra. La sua totale sfiducia nelle mie conoscenze andava dall’amore al matrimonio, dal sesso alla salute, dalla scuola al mondo del lavoro.
La mancanza del lavoro per noi giovani fu la prima degli eventi funesti causati dal suo lancio di anatemi che iniziavano sempre con le quattro parole porta-sfiga “che ne sai tu”.
Ricordo come se fosse adesso quando, trent’anni fa, tornai a casa con il mio primo contratto a tempo indeterminato. Lui senza scomporsi disse in tono amaro: “E ti danno così poco? Ma voi giovani cosa aspettate a fare una rivoluzione?”
Mio nonno, che aveva partecipato alle quattro giornate di Napoli, si accese la sua ennesima sigaretta con il mozzicone di quella che aveva appena finito di fumare, e con la solita insolenza aggiunse: “Che ne sai tu della rivoluzione”.
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