
CattiviConsigli . IRA
Plastic free
In 12 Novembre 2021 da Gianluca PapadiaFare la raccolta differenziata è un gran rompimento di coglioni.
Separare accuratamente tutti i materiali richiede uno sforzo enorme e farlo, senza avere la sicurezza che porti davvero dei benefici, è un lavoro deprimente.
La scellerata gestione dei rifiuti degli ultimi trent’anni aveva bisogno di una svolta ma credere che – da un giorno all’altro – la nostra amata classe politica abbia magicamente smesso di lucrare su questo business così redditizio, è un tantino difficile.
A Napoli, come se le istituzioni avessero trovato all’improvviso una bacchetta magica, siamo passati dai cumuli di rifiuti che arrivavano ai primi piani dei palazzi a una gestione della differenziata – porta a porta – da far invidia ai paesi scandinavi.
Secco, umido, plastica, metalli, vetro, carta, oli da cucina, pile esauste, dispositivi elettronici, abiti dismessi e farmaci scaduti. Undici contenitori che occupano tantissimo spazio e che – soprattutto d’estate – puzzano come una discarica abusiva.
Ricordo ancora la prima volta che rientrai a casa e fui assalito da un tanfo di pesce andato a male. Evidentemente avevo sottovalutato i contenitori di yogurt e tonno in scatola che, nonostante fossero lavati con acqua calda e detersivo – che inquina più del materiale destinato al riciclo – conservavano il loro cattivo olezzo per diversi giorni. Dopo un’accurata analisi olfattiva, decisi che forse era meglio mettere sul balcone il secco, l’umido e la plastica.
Non l’avessi mai fatto! Sul nostro balcone si scatenò una lotta all’ultimo sangue tra piccioni e gabbiani a caccia dell’ultimo residuo di cibo contenuto in qui maledetti contenitori che tornarono a occupare il loro posto nello sgabuzzino.
Dopo un naturale periodo di adattamento, anche se ancora oggi nessuno ha veramente capito se il polistirolo va nella plastica o nell’indifferenziato, i risultati ottenuti fanno ben sperare.
Ci siamo così abituati a prenderci cura della nostra spazzatura che quasi ci dispiace lasciarla sotto casa quando arriva il giorno previsto dal calendario di raccolta differenziata. Li svestiamo dalle etichette, li laviamo, li asciughiamo e, dopo averli accartocciati per bene, li riponiamo nei loro contenitori.
L’immagine dei turisti che fanno i selfie vicino ai cassonetti stracolmi è ancora troppo viva nei nostri ricordi per non impegnarci al massimo in questa guerra all’inquinamento.
Il terrore di ripiombare nell’ennesima crisi dei rifiuti ha avuto un effetto dirompente sulle nostre coscienze ed è stato uno stimolo forte anche per quelli pigri come me.
Questa crociata contro i materiali inquinanti ha prodotto però un effetto collaterale mostruoso: le buste biodegradabili.
Un oggetto che – prima di tutto – fallisce lo scopo per il quale è stato inventato, ha ragione di esistere?
Una busta biodegradabile non può contenere nulla.
Si rompe appena cerchi di metterci qualcosa dentro e soprattutto – essendo troppo sottile – non riesci mai ad aprirla.
Prima della pandemia risolvevi il problema leccandoti l’indice della mano destra, o se proprio volevi mantenere un certo contegno, potevi provare a soffiare forte tra le due sfoglie di cellulosa biologica trasparente, sperando di aprire un piccolo varco dove poterci infilare un dito.
Adesso, in piena emergenza Covid, devi solo sperare che la cassiera sia così gentile da aprire quelle maledette buste al posto tuo.
Io ho visto come fanno, ma non riesco a riprodurre quel gesto apparentemente così semplice. Con entrambe le mani, usando i polpastrelli del pollice e dell’indice, afferrano i due lati della busta e la aprono come fosse la cosa più semplice della terra.
Io pur di non affrontare quell’umiliazione, ogni volta compro le buste riutilizzabili che puntualmente dimentico a casa. Nella dispensa di casa nostra ho una collezione di quelle enormi buste di plastica dura che ho utilizzato una sola volta.
Anche stasera farò così. Avevo ricordato di prendere due buste dalla dispensa ma le ho lasciate nel cofano dell’auto.
«Avete buste riutilizzabili?» chiedo al cassiere quando arriva il mio turno.
«No, mi dispiace, le abbiamo finite» risponde placidamente lui mentre sento il panico impossessarsi del mio corpo. «Servono buste?» domanda il giovane impiegato del supermercato.
«Sì, grazie» riesco a pronunciare e, quando lo vedo appoggiare le buste sulla cassa, inizio a sudare.
Maledico il momento in cui ho deciso di mettermi in fila per questa cassa. Avrei dovuto scegliere una cassiera donna. Non tanto perché le donne sono più gentili e che, pur di dimostrarti che sono più brave di te, mi avrebbero dato le buste già aperte, ma proprio perché un uomo non è stato progettato per gestire le falangi in quel modo.
Il cassiere evita di guardarmi, finge di concentrarsi sui prodotti che ho comprato. Non mi sento di biasimarlo, lo capisco, ho visto il terrore nei suoi occhi quando ha capito che avevo bisogno delle buste.
I prodotti ormai sono tutti dalla mia parte ed io non sono riuscito ad aprire nemmeno la prima busta.
Devo reprimere il desiderio di infilarmi l’indice sotto la mascherina e ciucciarlo senza pietà. I droplet pieni di Covid sarebbero felici di ballare la macarena nella mia bocca.
Sento gli sguardi di tutto il supermercato affollato su di me, soprattutto della vecchietta che ho dovuto superare con una manovra proibita del carrello.
«Allora non aveva tutta questa fretta» pronuncia acida la donna, alludendo al fatto che l’ho speronata per guadare una posizione in fila.
«L’ultima volta ci ha messo mezz’ora a spulciare tutti i prezzi con la lente d’ingrandimento» le vomito addosso. «Adesso farebbe bene a starsene buona e aspettare il suo turno».
«Sono 83,50€» s’intromette il cassiere.
«È colpa sua se sono in questa situazione» rispondo cattivo. «Ora, se mi date solo un attimo di tempo, forse ce la faccio ad aprire queste maledette buste» urlo disperato e nel supermercato piomba il silenzio.
«Posso aiutarla?» mi chiede l’anziana donna e senza aspettare una risposta cerca di strapparmi la busta dalle mani.
Non mollo la presa e, poiché lei fa lo stesso, cerco di mordere le sue mani rugose ma con la mascherina non ci riesco. Lavoro di gomito per allontanare la vecchia da me ma lei si è attaccata alla mia busta come un polpo sullo scoglio.
«Lascia questa busta!» urlo ancora e cerco di togliermi la mascherina strofinando la faccia sulla sua schiena. Ormai la vecchia è stesa sulla cassa con la faccia schiacciata dal peso del mio corpo.
La guardia giurata, allarmata dalle mie urla disumane, mi afferra per le spalle e mi allontana dalla vecchia con un forte strattone. Mi dimeno per liberarmi dalla morsa di quell’energumeno ma quando sento il suo gomito intorno al collo, mi arrendo.
La donna si rimette in piedi e, dopo essersi sistemata i capelli con un gesto leggiadro, afferra i due manici della busta e li allontana l’uno dall’altro. Sotto quella tensione, le due pareti della busta, magicamente si separano. La vecchia ripete quell’operazione per tutte le buste appoggiate sulla cassa sotto lo sguardo esterrefatto di tutti i presenti.
Qualcuno è riuscito a fare un video, qualcun altro è scoppiato a piangere per l’emozione come un bambino davanti al numero di un mago, il cassiere è pallido, sorpreso dalla mia inaudita violenza e dal gesto prodigioso della vecchia.
«Dove ha imparato a farlo?» chiedo incredulo, con l’unico filo di voce che la stretta al collo mi consente.
«Me l’ha fatto vedere mia nipote su Tic Toc».
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