INVIDIA . Lector In Invidia
La musica che gira intorno
In 20 Febbraio 2020 da Attilia Patri DPUn breve trafiletto, poche righe, poche parole al termine di Tg: “Liverpool, il pub dei Beatles riconosciuto monumento storico di prima categoria”. E mentre ti descrivono il Philharmonic Dining Rooms, The Phil per i londinesi, l’edificio di epoca vittoriana costruito nel 1898 caratterizzato da una ricca facciata in pietra con obelischi, torrette sfarzose, svettanti pinnacoli, balcone con balaustra, porte di ingresso liberty considerate tra le più belle nel loro stile in tutta l’Inghilterra e, in dettaglio, ti raccontano degli interni con intonaco decorato, delle vetrate finemente lavorate, dei caminetti in mogano che circondano il banco a ferro di cavallo, dei bagni in marmo rosa, non sei già più lì, nel monumento che ti stanno dicendo che da oggi in poi sarà “considerato alla stregua di altri gioielli architettonici come Buckingham Palace e Chatsworth House”. Ascolta… la senti? La musica! Pub e Beatles. La seconda casa dei Beatles quando i Beatles non erano ancora i Beatles ma Beatles in divenire, esenti ancora da quella notorietà che diventerà impedimento per future incursioni al Phil, al punto che John Lennon dirà che la cosa peggiore di essere nei Beatles era “non poter avere una pinta al Phil”, mentre Paul McCartney vi tornò nel 2018 sorprendendo i presenti con un concerto improvvisato. Scorre la notizia e ripensi agli anni delle contestazioni giovanili e non solo, del fermento in senso assoluto, dell’epoca di transizione su tutti i principali fronti, di brani musicali non ancora scritti in tempi che stavano, però, diventando maturi e te li immagini così i Beatles che non erano ancora i Beatles, alla maniera di Gino Paoli: “Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo, destinati a qualche cosa in più che a una donna ed un impiego in banca”. John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison. Passa la notizia e non sei già più lì, e non devi neanche pensare a Curreri e al suo “Chiedi chi erano i Beatles” perché, se hai una certa età, c’eri e, che piacessero o meno, bisogna riconoscere loro la paternità di quella rivoluzione che, da lì in poi, si è imposta nella musica, nel costume, nella moda, nell’arte pop di tutto il globo o come direbbe Fred Frith: “un fenomeno di comunicazione di massa di proporzioni mondiali”.
Un altro breve trafiletto di qualche tempo fa: “Conclusa la trattativa per la vendita di Battersea Power Station, diventerà un complesso commerciale”. Bene! Prendiamo atto che, almeno a Londra, c’è movimento nel mercato immobiliare, che ci saranno nuovi cantieri, nuovi posti di lavoro tra appartamenti di lusso, uffici, ristoranti, negozi, e poi la Apple che vuole acquistarne una importante porzione per trasferirvi il suo quartier generale. Bene! Ringraziano anche gli umarells londinesi, sempre che ci siano anche a Londra gli umarells e non sei già più lì, sulla riva sud del Tamigi, in quella centrale termoelettrica costruita nel 1933, in mattoni, con le quattro torri e i notevoli decori di pregio all’interno, la prima di una serie costruita in Inghilterra con l’introduzione della rete elettrica nazionale, la centrale più grande d’Europa, chiusa definitivamente nel 1983 e, da allora, inutilizzata nonostante i molti progetti di riconversione proposti.
Ascolta… la senti? La musica! E sei nel 1977 dentro alla copertina di un album dei Pink Floyd, il più controverso, il più scomodo e spiazzante, incastonato tra “The Dark Side of the Moon” e “Wish You Were Here” prima, e “The Wall” dopo.
La copertina ideata da Roger Waters – “Penso sia un edificio molto bello. È sinistra e disumana. Mi piacciono le quattro torri fameliche e l’idea della centrale elettrica la trovo attraente” – e realizzata dal fotografo Storm Thorgerson, rappresenta la Battersea Power Station con il maiale Algie, che vola tra le torri e che anticipa il titolo “Animals” dell’LP, un concept album incentrato sulla critica feroce delle condizioni sociali e politiche del Regno Unito di allora, al capitalismo e alle varie classi sociali operanti, allegoricamente raffigurate dai “cani”, gli aggressivi rappresentanti della legge, dai “maiali”, i politici più spietati, gli sfruttatori e gli arrampicatori sociali disposti a compiere ogni genere di crimine pur di favorire la propria scalata al potere, e dalle “pecore”, la massa inconsapevole, debole e manipolabile che ha bisogno di seguire un leader per sentirsi al sicuro e ciecamente si sottomette ora all’uno ora all’altro, senza ribellioni, seguendo semplicemente la propria natura. Una Battersea Power Station stilizzata, con due maiali sopra le torri, rappresenterà nei concerti a venire, il palco in cui i Pink Floyd, Roger Waters e David Gilmour, come solisti dopo la crisi del gruppo, si esibiranno.
La Battersea Power Station che viene demolita, frazionata, venduta a lotti al miglior offerente, diventa solo un dettaglio da planimetria urbana. L’eternità, il simbolo, sono altrove, su una copertina di disco, un emblema collocato dalla rivista Rolling Stone in tredicesima posizione tra i cinquanta miglior album progressive di tutti i tempi.
Terzo e ultimo trafiletto ma questa volta si gioca, o si bara, in casa: “Roxy Bar Bologna, riapre il locale sotto le Due Torri cantato da Vasco Rossi”. Acquisito da una catena, il nome non è stato modificato. Perfetto! Ascolta… la senti? La musica!
Volendo prenoti un Freccia Rossa Milano-Bologna e, una volta a Milano, in poco più di un’oretta sei lì, sotto i portici di via Rizzoli, “a bere del whisky al Roxy Bar” magari no, però un caffè… Anzi, cappuccino e brioche, così hai la scusa per trattenerti un po’ di più.
Ascolti la notizia e la domanda è quasi scontata: ma quale bar di Vasco Rossi? Per i fans qualunque locale si chiami Roxy Bar, fosse anche a Timbuktu, è un richiamo al cantante di Zocca dove, se ci vai e se sei fortunato, lo trovi al Bipap, ti firma un autografo e magari canta anche un paio di ritornelli. Per qualunque gestore, invece, quel nome è fiuto di affari: basta appendere un paio di poster con sottofondo vasco mania.
Il Roxy Bar di “Vita spericolata”, di fatto, non è un luogo con una geolocalizzazione precisa da navigatore, un Olimpo da cercare nei luoghi della musica, ma piuttosto un luogo dell’anima, una leggenda di tappa notturna per anime un po’ così, un po’ randagie, una citazione presa in prestito, un’idea, un concetto che vive di vita propria. Il Roxy Bar è, piuttosto, l’ipotetico locale inventato nel 1959 dall’autore Leo Chiosso nel brano “Che notte” portata al successo da Fred Buscaglione, interprete anche di “Whisky facile”, quel Fed Buscaglione che incarnava con i suoi personaggi, ma ancor più con la sua morte precoce per incidente stradale, il concetto di “vita spericolata” di Vasco. Tutto qui, nessun bar reale da cercare anche se il Roxy rimane un simbolo, un richiamo. Se si va a Bologna e si è fan ci si va lo stesso, anche solo per percorrere quel corridoio sul retro dove si possono leggere e lasciare dediche, dove sono affissi i manifesti dei concerti, dove si racconta comunque una storia, anche se non è l’originale ma solo un’illusione, anche se di lì Vasco forse ci è passato una volta, a canzone già lanciata, a inizio carriera, a tarda ora, rimanendo fuori. Ci si va anche se non cantava proprio quello specifico locale, anche se non si è mai “troppo sinceri sinceri” nell’ammettere, da parte dei gestori, che quel nome ha portato fortuna, svantaggioso cambiarlo nel tempo, perché “la verità, la verità disturba sempre un po’ qualcosa”.
Cosa state dicendo? Che se si parla di Vasco, per forza, bisogna parlare anche di Ligabue? Per forza lo scontro e il confronto? Si è fatto tardi, Ascolta… la senti? La musica! “Ci vediamo da Mario, prima o poi…”.
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