INVIDIA . Lector In Invidia
La norma
In 11 Giugno 2020 da Attilia Patri DPViviamo anche di sensazioni a pelle. Anzi a volte le sensazioni a pelle sembrano contestualizzare un momento, un periodo. Sensazioni a pelle davanti ai titoli di Tg mandati in onda all’inizio di questa settimana, in piena fase due di ripresa, pressoché invariati sulle tre reti nazionali in sequenza dalle ore 13:00 alle 14:30. Anzi più di una sensazione. Quasi un salto sulla sedia se dopo tanti mesi i primi titoli non parlano di Covid, di ospedali, di contagi, di calcoli matematici tra nuovi e vecchi infetti, tra morti per, o con, o naturali per età o per altre patologie, di mascherine sì o no, di guanti protettivi che tanto protettivi non sembrano più, tra affermazioni di varia natura e il loro esatto contrario.
Finalmente, dopo mesi, Tg che ti spiattellano subito, come antipasto, le solite notizie di cronaca efferata al pari del prima, quando SARS-CoV-2 sembrava ancora un affare esclusivo per soli Cinesi. Finalmente torniamo ai gravi incidenti stradali (e ancor più tristi quando coinvolgono giovanissime vittime), ai femminicidi che non si sono mai azzerati non avendo il virus anche questa specificità, al ladrocinio legato alle occasioni, alle varie e inevitabili polemiche del dopo qualcosa, alle partite che ricominciano cosicché gli sportivi possano ritrovare il loro ruolo di CT abbarbicati al divano. In ultimo le notizie legate al Coronavirus. Finalmente, per la prima volta, in coda, e sensazione di quasi normalità, di quasi fiducia nel clima di responsabilità di ciascuno di noi per contenere, limitare, evitare e tutta una serie infinita di verbi nelle tre coniugazioni tutte.
Normalità di notizie di cronaca cui seguiranno le ormai normali e tradizionali trasmissioni per riempire insignificanti mattinate, fiacchi pomeriggi, vuoti serali. Notizie prese e spesso rivoltate in cerca di pruriti, condite da insinuazioni, meglio se con tanti testimoni, o pseudo, dell’ultimo minuto, di rincorsa al clamoroso a tutti i costi, in un crescendo di pietà artificiale e surrogato di lacrime al pari di quelle usate quando ci si sente un po’ l’occhio secco per l’aria condizionata. Il dolore altrui spiattellato a conforto di chi non ha niente di meglio da fare, quasi un bene di consumo qualsiasi offerto a profusione a tutti, senza distinzioni; reality show spacciati per “approfondimenti”; il diritto di cronaca a pretesto per togliere ogni filtro, anche quello, primo o ultimo, dell’humana pietas, per non porre argini alla spettacolarizzazione, e consentire di accendere riflettori quando sarebbe più opportuno smorzare luci e stendere un velo di silenzio. La TV del dolore, per quanto negativa, paga, e anche bene, in termini di audience e di spot pubblicitari. Per non parlare di quella forma di turismo perverso che accorre a immortalare nei selfie le villette, da Cogne ad Avetrana, passando dall’Isola del Giglio.
Il termine TV del dolore nasce a Vermicino il 10 giugno 1981 in un’Italia ancora sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna dell’anno precedente, dall’attentato a Papa Wojtyla per mano di Ali Agca, dai presunti 962 nomi eccellenti che compongono la neo-pubblicata lista dei componenti la Loggia Massonica Segreta di Licio Gelli. È un’Italia che si sente traballare come sotto l’effetto di un terremoto.
È il periodo delle TV commerciali e di pagine a pagamento sul Corriere della Sera per reclamizzare “Milano 3. Città degli anni ottanta, ricca di verde e di servizi, amica dei bambini, affrancata dai pericoli del traffico” del Gruppo Edilnord dei fratelli Berlusconi e di prime pagine con il riquadro di una foto di Alfredo Rampi, di anni 6, caduto accidentalmente in un pozzo artesiano nelle campagne attorno a Frascati, imprigionato in un cunicolo verticale largo solo 28 cm ma profondo 80 m.
È il periodo in cui i bambini dovrebbero guardare i cartoni di Mazinga e Goldrake, giocare con i mattoncini Lego, correre nei prati in un inizio di estate che più si è giovani e più sembra non dover finire mai come gli anni della spensieratezza. Non così per questo bambino alle prese con un destino avverso che lo scaraventa in quel buco segnando il suo fine corsa e impegnandolo in una lotta impari ed estrema tra paura, buio, pareti graffianti, fango, fame d’aria, di luce e di braccia rassicuranti.
Arrivano in tanti tra forze dell’ordine, vigili del fuoco e compaesani per cercare di dare una mano mentre i Tg di metà mattina ne danno notizia ufficiale al Paese intero e sulle TV private si fanno appelli per cercare escavatori.
La prima troupe ad accorrere a Vermicino e ad iniziare le riprese in diretta fu quella di un inviato del Tg2 secondo la sensazione e la rassicurazione che il salvataggio sarebbe avvenuto da lì a poco. L’idea di immortalare un lieto fine spinse il Tg1 a collegarsi e trasmettere le stesse riprese seguito nel giro di breve tempo anche dal Tg3. In pratica una diretta a reti unificate alimentata anche dalla curiosità di un imminente arrivo, sul luogo sventurato, del Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Mentre montava il circo dei curiosi nell’area non preventivamente circoscritta ed isolata, mentre alcuni tecnici Rai calavano sonde e microfoni per permettere una qualche forma di dialogo con Alfredino, mentre con il megafono, chinata a terra, come già su una tomba, una madre sconvolta cercava di tranquillizzare quel suo figlio imprigionato, mentre accorrevano ambulanti con panini e bibite in vendita per il conforto di tutti, mentre si illuminava a giorno la notte, non solo non accadeva nulla del salvataggio tanto auspicato (nonostante i tentavi veramente eroici di molti volontari), ma andavano in scena, immortalati per sempre, oltre che dolore, disperazione e rabbia, anche le evidenti difficoltà nella macchina dei soccorsi, di fatto senza coordinamento e organizzazione che aprì, quanto prima, la strada all’accelerazione nella nascita della Protezione Civile, come la intendiamo adesso. Quella che all’epoca, invece, esisteva solo sulla carta.
La diretta non-stop durò diciotto ore tra migliaia di curiosi in loco e oltre ventun milioni di telespettatori incollati frementi alla Tv. Non mancarono polemiche e commenti al pari di leoni da tastiera, anche se allora si era ancora senza una tastiera a portata di mano, o al pari di complottisti pre Social, tra chi pensava che la lunga diretta, la straordinaria copertura mediatica su Vermicino, servisse solo a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica da notizie di rilievo più strettamente di carattere politico o che si parlasse di un possibile omicidio del bambino per coprire errori fondamentali nei primi soccorsi ad opera dei Vigili del Fuoco; che si sottolineasse il cambio di vestito della madre come indice di indifferenza, che si scavasse a vuoto nelle dinamiche familiari dei Rampi.
‘Era diventato un reality show terrificante’ dirà il giornalista Piero Badaloni. ‘Ammesso che ce ne fossero le condizioni, se quel giorno fosse avvenuto un colpo di stato, la gente avrebbe risposto: Va bene, però lasciami vedere che succede a Vermicino” saranno le parole di Emilio Fede, allora direttore del Tg1. A proposito del grande interesse del pubblico sulle sorti di Alfredino, il giornalista Giancarlo Saltalmassi riferirà che la sera di venerdì 12 giugno la diretta sul primo canale era stata interrotta per trasmettere una Tribuna Politica con ospite Pietro Longo. I centralini della Rai furono bersagliati di telefonate del pubblico che pretendeva si tornasse a trasmettere il caso di Vermicino. Lo stesso giornalista che durante l’edizione straordinaria del Tg2 del 13 giugno 1981, quando tutta l’Italia si era fermata nel continuare a guardare perché da guardare non c’era più nulla e tutto si era compiuto, dirà: “Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi”.
Eravamo tutti lì incollati con la speranza. Non ci accorgevamo che, con lo scorrere delle immagini, un certo tipo di comunicazione stava mettendo radice e avrebbe creato nel tempo, per certi versi, assuefazione. Cominciava, per certi aspetti, lì, sul bordo e sul fondo di un pozzo largo solo 28 cm lungo 80 metri, la norma.
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