Letteratura&Social
Riflessioni sull’editoria con qualche mito da sfatare
In 12 Marzo 2018 da Debora BorgognoniAll’università, uno dei corsi fondamentali in piano di studio era Comunicazione letteraria nell’Italia contemporanea. Il programma toccava gli argomenti relativi alla nascita dell’editoria contemporanea, fino ad arrivare alla letteratura postmoderna. Come nasce quindi l’editoria contemporanea? Facciamo un passo indietro.
La rinascita economica del dopoguerra porta a un incremento della scolarizzazione e rende indispensabile la lotta contro l’analfabetismo: il mondo scommette, e a buona ragione, sulla cultura. Il tema dell’intellettuale impegnato è un tema molto forte. L’intellettuale è impegnato nell’editoria e ha un ruolo propositivo, un ruolo di mediatore dell’informazione. È colui che fa cultura, l’homo faber che dà vita a riviste e collane editoriali.
L’homo faber per eccellenza è l’editore, che attua nuove forme di modernizzazione nel modello d’impresa e di tipologia di libro da proporre. La BUR di Rizzoli (1949) nasce proprio in questa ottica, per avvicinare alla lettura un pubblico sempre più vasto, così come il progetto editoriale Oscar di Mondadori (anni ’60) coinvolge (anche, soprattutto) opere contemporanee italiane, e di fatto crea veri e propri casi letterari.
Esistono, in quegli anni, due tipologie di editori italiani: l’editore protagonista e il letterato editore. Il primo, definizione di Bompiani (che oggi fa parte di Rizzoli che fa parte di Mondadori) è colui che crea la sua impresa e ne determina scelte e rischi, è responsabile delle vicende delle sua casa editrice e si circonda di un folto numero di collaboratori.
Arnoldo Mondadori è il primo che compie questa metamorfosi dell’editoria. La sua storia risale al 1907: da una piccola tipografia costruisce un vero e proprio impero, fiancheggiato dalla finanza. Ma anche Angelo Rizzoli è un editore protagonista: anche lui nasce come tipografo e diventa dapprima editore di riviste, e negli anni ’30 addirittura pioniere dell’editoria multimediale. Ma si possono citare anche Valentino Bompiani, Giulio Einaudi, case nate entrambe intorno agli anni ’30 e Longanesi, Garzanti dei Fratelli Treves o Feltrinelli, nate invece dopo la prima metà del secolo. Feltrinelli, nello specifico, viene considerato “l’uomo nuovo” dell’editoria perché vi arriva dall’impegno politico con Colip (Cooperativa del Libro Popolare, 1949-54) e trasforma completamente l’impresa.
I due elementi fondamentali dell’editore protagonista sono la politica d’autore da un lato, e la politica d’immagine dall’altro. Mondadori, uomo non particolarmente colto ma molto ambizioso, ha un motto: Io ingoierò casa Treves. Quest’ultima già pubblica, per esempio, D’Annunzio e Verga. Mondadori è convinto che una grande casa editrice debba avere nel suo catalogo grandi autori, e così agisce, cercando di portarsi a casa gli autori più in vista, come D’Annunzio (e riuscendoci, peraltro). Diversa è la politica d’autore di Bompiani, che già è scrittore e commediografo, quindi in grado di costruirsi un catalogo d’autore. E lo fa, portando alla casa editrice nomi come Cesare Zavattini, Alberto Savinio, Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Ignazio Silone, Massimo Bontempelli.
La politica d’autore influenza la politica d’immagine, e si sviluppa attraverso la figura del letterato editore – o come si direbbe oggi, editor o consulente editoriale -, che affianca l’editore protagonista, e può essere interno o esterno alla casa editrice. È famosa la autodefinizione di Vittorio Sereni, la figura di consulente più in vista allora: «Io sono poeta e di poeti funzionario».
Ancor prima di Sereni, un consulente molto richiesto è Elio Vittorini, scrittore “improprio” e innovatore nella letteratura italiana, direttore di riviste, traduttore e curatore di collane (per inciso: contemporaneamente alla politica d’autore si sviluppa la politica di collane, attraverso la quale si articola la struttura della casa editrice).
Collabora con case editrici completamente diverse fra loro. Per Mondadori è traduttore per le collane La romantica e Medusa. Anche per Bompiani è traduttore, prima per opere improntate a toccare la morale, poi per testi ebraici. Per Einaudi si fa promotore di una comunicazione letteraria che mira a portare in Italia William Faulkner, John Steinbeck e i grandi autori americani. Vittorini è anche uomo di riviste: Il Politecnico – operazione editoriale che compie con Einaudi, unica casa editrice di sinistra con cui collabora -, richiama un coinvolgimento di tutte le arti e si ispira alla celebre rivista di Cattaneo.
Ho parlato di politica di collane. Le collane sono le sedi, per definizione, di una tipologia di prodotto letterario. Il pubblico (il target, insomma) viene definito entro questa scelta. Vittorini crea, alla fine degli anni ’40 e affondandone le radici nel progetto Politecnico, la collana storica e con impronta sperimentale I Gettoni che avvia poi nel 1951.
Nasce una nuova narrativa, soprattutto italiana. Pensiamo al nome: dà l’idea di qualcosa di cittadino e moderno. Il gettone, allora, si usa nelle cabine telefoniche di città, e serve per comunicare. O, ancora, il gettone si usa nelle giostre e serve per giocare. I Gettoni raccoglie libri di ricerca, di scritture memorialistiche e contemporanee, legati a tematiche fortemente attuali.
Il primo libro di spicco è Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, per il quale Vittorini non si limita a un’azione di talent scouting, interviene nel testo, ne orienta le scelte autoriali, fa l’editor. Da notare che per la prima volta, proprio da questa pubblicazione, nasce il risvolto di copertina: non si tratta di un semplice abbellimento del prodotto-libro ma di un accento sui pregi e sui limiti del contenuto. È noto il trattamento poco felice che Vittorini riserva a Beppe Fenoglio nel risvolto di copertina del libro La malora.
La categoria degli esclusi non è proprio esile. E anche alcuni libri effettivamente pubblicati non hanno vita semplice. Non è facile ora riuscire a entrare nelle pieghe di quel mondo, tutto coagulato intorno a editori e riviste letterarie. Non è facile ora capire che, per esempio, al convegno letterario del Premio San Pellegrino del 1954 un uomo – un principe, un siciliano – come Giuseppe Tomasi di Lampedusa partecipa con uno sguardo che non è in grado di mettere a fuoco sulla realtà che ha davanti. E anche lui, infatti, ne sarà escluso.
Oggi il luogo della discussione è il social media, e lì, in questo mondo nuovo e anche e sempre più appiattito verso il basso, ci mettiamo a discutere sul fatto che sia giusto o meno affidarci a una casa editrice a pagamento (EAP, odiosissimo acronico) e quanto invece sia etico far correggere il proprio testo a un editor. Le case editrici stanno vivendo una sorta di crisi d’identità. Il Vittorini di turno che crea I Gettoni, che è uomo di marketing editoriale ante litteram, che sa essere editor spesso dispotico, non viene più accettato.
E così gli emergenti sono di due tipi.
Quelli che non ce la faranno mai e che stanno ancora lì, appunto, a discutere se davvero una NO EAP (e, se possibile, la negazione dell’odiosissimo acronimo è ancora più odiosa) sia un buon investimento, o se conviene rivolgersi direttamente a Mondadori. Ma, attenti tutti!, non intendo pagare un agente letterario, sia mai!, non intendo nemmeno avere una valutazione seria del mio manoscritto: il mio lavoro è scrivere. E poi ti contattano chiedendoti una recensione per un libro ancora da pubblicare (mentre si voleva intendere: valutazione e correzione manoscritto) o una promozione per un libro inedito (mentre si voleva intendere: rappresentanza dell’autore e dell’opera). Giuro.
Poi ci sono quelli che ce la faranno (che io, nel saggio Lo scrittore emergente in Italia. Analisi di una subcultura nella comunicazione mediale chiamo gli esordienti), scrittori all’esordio e di un certo talento che se la stanno dando a gambe levate proprio da quel social media che ha dato loro la prima grande visibilità: Facebook.
Lo stanno facendo anche scrittori già consacrati, se è per questo. Teresa Ciabatti ha chiuso il proprio account, così come Massimiliano Parente e Crocifisso Dentello. Quest’ultimo l’ha fatto in grande stile. Ha scritto un post poche ore prima di cancellarsi in cui ha annunciato l’addio e ha diffuso il suo numero di telefono dicendo: conversiamo su WhatsApp.
Perché? Perché Facebook – e in generale ogni social media generalista – è troppo rumoroso, pone come regola il determinismo secondo cui è il dispositivo a determinare le nostre vite e non viceversa. Lo fa attraverso algoritmi opachi che ci impongono di visualizzare una timeline che è presumibilmente la nostra scelta ideale. Taglia fuori il resto. Anche la nostra volontà. Probabilmente taglia fuori anche una fetta delle vendite, ossia non ne sposta più: ci fa essere visibili a chi già ci conosce, a chi già – nel caso degli scrittori – comprerebbe il nostro libro.
E a quelli che “Il talento non si compra” mi viene da dire che il talento si brucia o si scopre. In entrambi i casi c’è una transazione economica. Mancante (nel primo caso) e andata a buon fine (nel secondo). L’agente-editor-consulente è come un art director. I creativi hanno dieci idee. Nove sono da buttare, una è geniale. Hanno bisogno di un art director che sappia trovare quella geniale. E per non bruciare il talento non serve solo un editor che funga da art director. Servono libri, studio, università, corsi, docenti con cui confrontarsi, mostre d’arte da vedere, spettacoli teatrali cui assistere, musica da ascoltare.
Ma, per favore, non leggete questo post se: avete quindici anni, se avete la sensibilità di un dodicenne, se avete il pianto facile di un seienne. Non vorrei distruggervi un sogno.
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