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IRA . Lettere dall'Ira

La camera delle farfalle

In 22 Gennaio 2021 da Redazione Seven Blog
di Chiara Menardo

Una notte di inizio ottobre del 2020 a Milano una diciottenne viene trovata da una pattuglia dei carabinieri, seminuda e ferita, per strada. Denuncerà Alberto Genovese, imprenditore, di averla drogata durante una festa, incatenata a un letto e torturata per oltre 20 ore. Lui si difende incolpando la dipendenza da sostanze stupefacenti.

Mi sta guardando. Sento che mi osserva anche se tengo gli occhi chiusi.

Non riesco ad aprirli: le palpebre sono così pesanti, come incollate; come se qualcuno ci avesse appoggiato sopra un grosso masso.

Mi fa male.

Il freddo…

Fa male tutto e ho freddo. Provo dolore anche solo a pensare che mi sta guardando. È come se il suo sguardo fosse carta vetrata, e brucia, mi brucia la pelle…

Ho qualcosa intorno alla gola che stringe a ogni mio movimento. Mi manca il respiro.

Tu, luuuuurida cagna!

Non riesco a respirare!

Adesso lo so, adesso lo so, lo so, lo so, lo so, come si sente un cane al guinzaglio. Ce l’ho addosso, il guinzaglio. E non riesco ad aprire gli occhi, non respiro, e mi sta fissando.

Ma quanto sei bella, amore mio, quanto sei bella.

Non so se mi fa più paura quando sta fermo e mi guarda – lo so che mi guarda, anche se non riesco a vederlo – o quando mi arriva addosso. Come un treno. Come una valanga di rocce appuntite, come una mandria di tori incazzati. Mi seppellisce sotto di lui, e io non respiro, non ho più forze, sento solo il dolore.

E la paura.

Guarda che occhi, che capelli, che gambe. Guarda quel seno, così sodo che sta su da solo, bambina bella. Bambola. Una bambola di carne e di pelle che sa di crema idratante e profumo.

E il dolore.

Non mi ricordo perché adesso sono qui, legata a una catena con un guinzaglio al collo come un povero, stupido cane preso a calci e a bastonate.

Non mi ricordo cosa è accaduto prima di ora, di questo istante lunghissimo che non finisce, non riesce a finire.

Ogni tanto mi fa bere qualcosa.

Vuoi bere qualcosa, tesoro? Vuoi venire con me nella stanza piena di giochi incantati?

Ogni tanto si apre una porta e subito si richiude, entra qualcuno ed esce, sento parole lontane, confuse, come se fossero avvolte in strati e strati di bende e cotone. E poi mani aperte, o chiuse a pugno. Su di me.

Qualcosa mi entra dentro e fa male, il sangue cola lungo le cosce, sulla faccia, giù dalle labbra. Mi sta respirando addosso. Pesante, sempre più pesante, e mi tiene, stringe, pizzica e morde. Mi torce come una bambola, una stupida inutile bambola di pezza piena di strappi. Mi vuole togliere l’imbottitura e lasciarmi floscia e morente in qualche angolo buio. Mi butterà con un calcio fuori dall’auto, quando avrà finito, quando si sarà stancato di me e di tutto questo dolore? Quando avrà finito con me, ce ne sarà un’altra?

La vuoi vedere la mia collezione di farfalle, bambina? Ti piacciono le farfalle, vero? scommetto che nella tua cameretta ci sono farfalline ovunque: sul copriletto, sulle tende, sulla tappezzeria.

E io che volevo solo una serata tra bicchieri e musica, bella gente e bei vestiti, due chiacchiere e qualche ballo…

Non questo, non era previsto, non è questo il motivo per cui sono venuta stasera. O ieri sera, non so, il tempo ormai ha smesso di scorrere. Non so se sia giorno o notte, non filtra niente dalle persiane chiuse, tappate, sigillate, non c’è buio o luce. Solo una luce soffusa e cattiva e il tempo non passa, non sta passando per niente.

Fammi vedere la tua farfallina, puttana. Sei come tutte le altre.

Un letto e lui sopra, fuori, intorno, dentro di me. Un animale, una bestia che non ha più limiti: li ha persi da qualche parte tra il corridoio e la camera da letto, li ha chiusi fuori insieme al sorriso da padrone di casa, ai ciao come stai, bellissima. Oh, quanto sei bella, perché non vieni un minuto con me che voglio farti vedere una cosa… che cosa, non ho visto più nulla, dopo il bicchiere in una mano e due sorsi, le gambe molli e i muri che pulsano come le pareti di un cuore impazzito. Più vicine, lontane, vicine, lontane. Thump. Thutump. Thump. Thutump.

Vieni, bellezza, fammi sentire quanto ti senti figa. Hai detto che sei una donna, giusto? Dimostramelo.

E il freddo delle mani che mi tolgono i vestiti di dosso, e gli occhi. Quegli occhi che guardano fissi, arrabbiati, anche se non riesco a vederli perché non riesco a sollevare le palpebre lo so che non mi lasciano andare un istante.

Lui gode a vedermi star male. Si eccita delle ferite, del sangue, delle labbra spaccate, degli occhi violacei, dei lividi che piano piano, come la pasta di pane che lentamente lievita e cresce, si gonfiano.

Puttana, stronza, bastarda, troia, godi, lo so che ti piace, sto venendo, baldracca di merda…

Pulsa. La testa, la faccia, in mezzo alle gambe, il seno fa male, sento i graffi. I segni dei morsi, come se fossi stata rinchiusa dentro a una gabbia con un cane idrofobo. Ho sete.

Acqua, voglio un po’ d’acqua. E la mia mamma. La coperta addosso, la mia camera e l’orsetto che avevo da bambina. Mi basterebbe questo per essere in pace, ora. Perché non posso tornare a casa, non dico niente a nessuno, lasciami andare, chiamo la polizia.

Scommetto che sul letto ci sono ancora i peluche di quando eri piccola e che disegni un cuoricino sopra le i, quando scrivi a mano e non stai lì a pistolare sul cellulare per farti i selfie con le tette di fuori e le labbra a culo di gallina che metti su Instagram. Vero, bambina, che ti piacciono le farfalline?

Lasciami andare, ti prego, non dirò niente a nessuno, dirò che sono caduta, è stato uno sconosciuto che mi ha bloccata dentro a un androne e non ha capito più niente. Ecco, uno sconosciuto mi ha massacrata di botte. Non tu, no di certo. Lasciami libera, voglio tornare a casa, io non ti conosco, non ti ho mai visto, non sei stato tu a farmi questo, per favore ti prego…

Ne vuoi una striscia anche tu? Ah, no, scusa, quella è per me. Tu bevi, bellezza, bevi tutto d’un fiato. Ti fa bene, ti porta nel regno delle favole, dove tutto è magia. Io sono la tua magia, puttana. Dillo, che ti piace, dai. Dillo adesso, convincimi.

Almeno finché ne avrò voglia, sei una cosa di pelle morbida che appartiene a me, solo a me. Delle mie cose faccio quello che voglio. Se compro un vaso e lo voglio rompere, lo butto per terra con forza e lo sfascio: tanto, è mio. Tu adesso sei mia, perché mi hai detto di sì e sei venuta con me lungo il corridoio, hai passato la porta della mia stanza e hai permesso che la chiudessi alle tue spalle. Bastava solo che non ci cascassi, bimba nella tana del lupo. Bastava rimanessi di là.

Ha ragione lui. È solo colpa mia, non dovevo, avrei potuto vestirmi diversa, non ridere troppo, non accettare quel bicchiere pieno di qualcosa che forse era vodka, non so, avrei dovuto gridare di più, pensare di più, stare a casa a studiare con addosso la tuta rosa con i coniglietti invece di uscire e venire qui con la gonna corta e i tacchi. Avrei dovuto pensarci, è solo colpa mia, solo mia se adesso sono qui e le lacrime sono finite, non escono più, e il dolore ormai è così costante, continuo che non mi ricordo neppure come si sta, senza avere male dentro e fuori. È solo colpa mia.

Sei una stupida, sporca, lurida cagna.

Si è stancato di me, non sa cosa fare, mi scioglie le mani, slega il collare. Una gonna, le scarpe non so dove siano finite e la porta che si apre.

Un telefono, il mio, dove sta? Dammelo, che non mi ricordo. Non mi ricordo più niente ma qui adesso non c’è nessuno, dove sono finiti tutti quanti? Le scale, le gambe che tremano, la faccia fa male e anche tutto il resto, ma scendo le scale, le scale, in ascensore io non ci entro, è chiuso, si soffoca, ho bisogno di aria e di vedere qualcosa che non siano muri e porte e soffitti, ho bisogno di qualcosa, qualcuno per calmare il dolore che sento. Ovunque, su ogni singolo millimetro quadrato di pelle, che sento dentro di me, nella pancia e nel buco del culo, mi fa male tutto e mi sento vuota, un sacchetto floscio del supermercato dimenticato dentro un carrello.

Cazzo. Qualcuno mi dia una cazzo di mano, per favore. Che io da sola non ce la faccio, a rimettere insieme ogni singolo pezzo di me, che adesso è sparso come i frammenti di un bicchiere rotto in una discarica.

20, fottutissime ore da incubo.

Sei mia. Solo mia, di nessun altro. E ricordati: qui non è successo niente.


Post Views: 171
Tags: Alberto Genovese, cronaca giudiziaria, feste, lettera, racconto

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