INVIDIA . Lector In Invidia
Il tempo di un giorno
In 24 Gennaio 2019 da Attilia Patri DP“La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.
Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. “Quanti anni? Sano o malato?” e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.
Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico, sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero “bagagli dopo”; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero “dopo di nuovo insieme”; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero “bene bene, stare con figlio”. Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno.
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente” – Primo Levi – Se questo è un uomo – Einaudi, ed. 2005
Se ne parla da qualche giorno e se ne parlerà fino a domenica 27: siamo nel pieno della settimana che conduce al Giorno della Memoria. Poi gli spot istituzionali, le pellicole di filmati, le interviste ai sopravvissuti, i film straordinari di routine dedicati, verranno riposti nei cassetti per essere rispolverati e rimessi in circolo, o in pasto, il prossimo anno, per l’esame di coscienza periodico.
Memoria in data stabilita per un momento collettivo di riflessione per qualcosa che sembra già archiviato dalle pieghe della Storia mentre il numero dei testimoni inesorabilmente si assottiglia lasciando ai pochissimi superstiti l’idea che, dopo di loro, la Shoah diventerà solo un capitolo sempre più sottile e lontano, fino a ridursi a un rigo da sorvolare e dimenticare annegandolo di indifferenza.
Il 27 gennaio – il ricordo da far coincidere con il 27 gennaio del 1945, giorno in cui le truppe sovietiche della 60° Armata arrivarono per prime a Òswiecim, in tedesco Auschwitz, scoprendo il vicino campo di concentramento e liberandone i superstiti, rivelando al mondo l’orrore del genocidio nazifascista con i suoi strumenti di tortura e di annientamento – è una ricorrenza internazionale istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 1 novembre 2005 mentre, in Italia, è stata istituita il 20 luglio 2000.
Indubbiamente Auschwitz è il simbolo universale della tragedia ebraica e di altre minoranze etniche durante la Seconda Guerra Mondiale e ha un forte potere evocativo. Tuttavia, ridurre il Giorno della Memoria solo al ricordo di quella che venne definita la Soluzione Finale, pur nella sua immane atrocità, può risultare riduttivo e fuorviante riducendo il tutto ad un “altrove”, lontano da noi, dalle nostre responsabilità di italiani di allora, e con pochi attori principali nei loro costumi di scena: SS in divisa nera e deportati con pigiami a righe. Delimitare il ricordo al perimetro di filo spinato elettrificato, ai forni, alle ciminiere, alle fosse comuni, al tavolo operatorio di sperimentazione, alla morte o alla violenza per capriccio del momento di qualche Kapò, è già un prenderne le distanze, delegare solo ad altri la responsabilità e rinnegare il contesto che ne ha dato l’avvio, un lavarsi le mani alla Ponzio Pilato per quello che non si è fatto per impedire l’osceno.
Il campo di sterminio di Auschwitz non è sorto per caso, né è un caso che lì siano stati fatti confluire sei milioni di persone da eliminare secondo una pianificazione rigorosa, senza nessuna colpa da espiare se non quella primitiva di essere nati.
Non esisterebbe Auschwitz senza il resto d’Europa, Italia compresa, senza quella ideologia di fondo del mito della razza superiore, senza quelle reti di complicità e di decisioni tra vertici, senza quell’obbedienza cieca e servile, motore di barbarie. Non ci sarebbe Giorno della Memoria se non ci fossero stati i giorni della vergogna dai quali non tutti possono sentirsi veramente, in modo immacolato, estranei.
Auschwitz non è il risultato di inumanità di derivazione bellica, Auschwitz è un’idea maturata prima, da un certo momento in poi, ha radici in una certa politica nazionalista, mentre ancora persecutore e perseguitato, vestiti allo stesso modo, spesso con le stesse idee a riguardo del Regime, facevano parte della stessa società.
“Uscivo da una famiglia di questo tipo: ebraica e fascista. Ma sia ben chiaro: infinite altre famiglie ebraiche erano a quell’epoca come la nostra, normali (e banali) come la nostra. Eravamo dei piccoli borghesi, caratterizzati, anche noi, dagli stessi difetti, delle stesse colpe, delle stesse insufficienze della contemporanea piccola borghesia moderata cattolica. Sembrerà strano: eppure erano pochissimi, prima del 1938, gli ebrei italiani che non fossero devoti a Casa Savoia, mentre il Duce, che aveva conquistato l’impero, rappresentava per molte delle nostre madri, zie e sorelle una specie di idolo” , dirà Giorgio Bassani.
Non esisterebbe Auschwitz senza la vergogna in Italia, così come in altri Paesi europei, della discriminazione progressiva degli ebrei cominciata già prima del conflitto bellico, il 14 luglio 1938, con il Manifesto della Razza (Art.9: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”) e poi con il susseguirsi di tutte le inevitabili applicazioni e conseguenze: esclusione dalle scuole statali, dall’insegnamento, da incarichi presso istituzioni e enti pubblici, confisca dei negozi, delle imprese, dei possedimenti, solo perché ebrei, una stirpe a parte da emarginare da una certa data in poi. Il confinamento nei ghetti fu l’iniziativa della prima ora; poi, successivamente, gli ispiratori di quella politica discriminatoria, quelli che si definivano e venivano considerati alleati, si presentarono, in veste di occupanti, per l’annientamento definitivo. Tanti italiani chiusero gli occhi, guardarono altrove, altri, vuoi per qualche convenienza, per paura, o per danaro, aiutarono nelle segnalazioni, nei rastrellamenti, nel riempire i vagoni. Il primo homo homini lupus fu un conoscente, un vicino, uno di cui, magari, si pensava di potersi fidare.
“Ma il colpo più duro fu quando capimmo che i più zelanti fra i nostri aguzzini non erano i nazisti. Erano gli italiani. Si incontrano spesso, in circostanze di guerra, soggetti che cercano di essere migliori dei loro alleati potenti, che si sforzano di superarli in crudeltà. Mio papà non riusciva a capacitarsene. <Italiani!> ripeteva sconvolto. <Sono italiani quelli che ci picchiano, che ci spingono, che ci scherniscono!>.
Per la prima volta capii di essere considerata una non-persona, un pezzo (uno Stück, appunto) che stava per essere caricato su un vagone e portato chissà dove”, scriverà Liliana Segre.
Se Giorno della Memoria dev’essere che sia una memoria non solo di forni, di fosse comuni, che sia qualcosa di più della visione di un essere ridotto a scheletro avvolto in una coperta straccia; che sia memoria, soprattutto, di una certa politica, di una esaltazione, di una umanità svenduta al miglior offerente.
Che sia Memoria del passato che ci illumini nel presente, che non ci faccia mai abbassare la guardia.
“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso” – La banalità del male – Hannah Arendt
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