INVIDIA . Lector In Invidia
L’indifferenza nutrimento di radici incompatibili
In 23 Gennaio 2020 da Attilia Patri DPSiamo nel pieno degli eventi che ricordano le pagine più buie della Storia e che hanno, per convenzione internazionale, nel 27 gennaio, Giorno della Memoria, il loro apice. Giorni in cui si pone attenzione, prevalentemente, sull’Olocausto come fatto in sé, sull’esito di razzie, catture, deportazioni, campi di sterminio e idea di soluzione finale. Si racconta l’orrore, perché orrore è stato ma, più difficilmente, si punta l’attenzione sulle fasi che hanno preceduto e permesso in Italia tutto ciò, sul lungo percorso culturale e ideologico, sulla metodologia fatta di promulgazione di leggi razziali e di propaganda. Si racconta il durante, si scivola veloci sul prima, sul Manifesto della Razza pubblicato il 5 agosto 1938 sulla rivista “La difesa della razza”, Anno I, Numero I, con quel suo punto 7: È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti e 9: Gli ebrei non appartengono alla razza italiana; raramente si parla del dopo, della legislazione di ravvedimento e compensazione per i torti ingiustamente subiti.
Le leggi razziali comprendevano un insieme di provvedimenti (leggi, ordinanze, circolari) applicati in Italia fra il 1938 e il 1945, assecondate e sostenute da una certa indifferenza generale da parte del popolo comune e rese esecutive, con una solerzia senza precedenti, da chi esercitava direttamente o indirettamente il potere. Un arco di tempo di sette anni, un unico lungo buio fatto di storie di atrocità e ingiustizia straordinarie, pur non mancando atti di coraggio e sostegno opposti. Oltre quarant’anni, dal 1943 al 1987, e ottanta nuove leggi, invece, è quanto è occorso per liberare il nostro ordinamento da tutte quelle norme a vario titolo collegate alle leggi razziali o meglio “per estirpare dal nostro ordinamento tutte le radici della discriminazione”.
Il primo impulso in tal senso non partì dall’interno ma da una prescrizione degli Alleati alla firma dell’Armistizio di Malta del 29 settembre del 1943 dove, all’articolo 31 si leggeva: “Tutte le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinione politica saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate, e le persone detenute per tali ragioni saranno, secondo gli ordini delle Nazioni Unite, liberate e sciolte da qualsiasi impedimento legale a cui siano state sottomesse”.
Ordini dall’alto, dunque, su un Paese politicamente diviso in due: l’Italia di Badoglio al Sud che cercava a fatica di ricomporre uno Stato ridotto in macerie e la Repubblica di Salò di Mussolini ispirata ancora ai principi del fascismo. Ordini inizialmente disattesi sia per la dichiarata prosecuzione della guerra a fianco della Germania nazista che rendeva impossibile un ripudio della precedente legislazione antiebraica e i suoi effetti, sia per l’ideologia stessa di Badoglio firmatario con altri del Manifesto della Razza che del Vaticano, con le gerarchie cattoliche ancora saldamente ancorate ai pregiudizi antisemiti.
In concreto nell’immediato non vennero intraprese iniziative significative e l’insieme della legislazione razziale rimase intatto creando terreno fertile nei mesi successivi per le razzie naziste nell’Italia occupata e le successive deportazioni.
Molto alla buona si potrebbe dire che la Storia dei lager su questi ritardi si incancrenì ulteriormente creando metastasi ovunque e non ci furono effetti speciali immediati neanche con il primo decreto del governo Badoglio, il Regio Decreto-Legge n.25 emanato il 20 maggio del 1944, “Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica” (Gazzetta Ufficiale, 9 febbraio 1944) che gettava le basi per l’attività di restituzione, risarcimento e riparazione agli ebrei perseguitati. Lo stesso giorno fu emanato anche il Regio Decreto-Legge n.26, “Disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica”, trascritto in Gazzetta Ufficiale solo il 20 ottobre del 1944.
Fermandoci a un mero elenco storico non possiamo non ricordare che tra il 1944 e il 1947 furono emanate ventidue leggi con l’obiettivo di cancellare ogni provvedimento contro gli ebrei nel periodo fascista. Il lavoro di “pulizia” continuò anche negli anni successivi completandosi soltanto nel 1987 con la definitiva eliminazione anche degli aspetti, per così dire, meno rilevanti. Non possiamo negare che il lavoro fu imponente anche se rallentato dalle briglie infinite e vischiose della burocrazia ma non possiamo neanche negare che i ritardi e la scarsa volontà del primo periodo furono inqualificabili e mentre si disquisiva all’infinito le stazioni ferroviarie si riempivano di carne da mandare al macello. I giochi erano fatti e nessuno interveniva per cancellarne le regole.
“Il treno si ferma, a quanto pare in aperta campagna. Non sappiamo bene se ci troviamo ancora nella Slesia o in Polonia. Il fischio stridulo della locomotiva risuona sinistro, penetrante come un grido di aiuto, denso di presagi, come se la locomotiva personificasse la massa d’uomini che sta conducendo a una grande disgrazia. Il treno comincia a far manovra; dobbiamo essere ad una stazione abbastanza importante. Improvvisamente, dalla piccola folla rinchiusa nel vagone in timorosa attesa, si alza un grido. ‘Qui c’è un cartello: Auschwitz!’. Ognuno di noi sente il cuore fermarsi. Auschwitz era un concetto, l’incarnazione di idee confuse – e per questo ancora più terribili – di camere a gas, crematori e assassinii in massa. Il treno si muove lentamente, quasi esitando, come se volesse porre gradualmente, con delicatezza, la merce umana che trasporta di fronte alla verità: Auschwitz!” – Viktor E. Frankl, L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, Franco Angeli, 2017
Passata sul binario la prima sommaria selezione, abbandonato sul marciapiede lo scarso bagaglio, il lungo cammino attraverso sentieri di fili spinati carichi di corrente elettrica verso la camera di disinfezione dove consegnare quei pochi averi ancora addosso: un orologio, la fede nuziale, un paio di orecchini, tra comandi urlati da voci rauche, spinte e percosse. Rasati e nudi si entrerà nelle docce e la nudità sarà la sola proprietà di quegli uomini e di quelle donne ai quali non è rimasto nulla, nulla da perdere, tranne quella vita resa ridicolmente nuda, dove è impossibile trovare ancora un anello di congiunzione con la vita di prima.
Il campo di concentramento con la morte sempre davanti ma cercando di dire di sì alla vita nonostante tutto, nonostante fosse proprio il luogo dove si perdeva tutto ciò che fino ad allora si era posseduto: identità, dignità, certezze, affetti, felicità, denaro come possibilità di scambio, ruolo sociale, onore. Dire di sì alla vita facendo a meno di tutto, con l’unica consolazione nel sonno notturno che rendeva, almeno per qualche ora, inconsapevoli, placando in qualche modo il tormento costretto da una condizione inumana. L’apatia come corazza di sopravvivenza che compariva dopo qualche settimana nel lager quando, dopo lo choc iniziale, i sofferenti, i malati, le punizioni a casaccio, i morti, l’odore acre dalle ciminiere, si incontravano talmente spesso che la loro vista non commuoveva più, come avvolti da un torpore emozionale che spingeva verso una insensibilità progressiva mimetizzante la verità e concentrata verso una sola finalità, la pura conservazione della vita facendo appello alle piccole cose della quotidianità passata: prendere il tram, arrivare a casa, trovare le persone care.
Il luogo dove tutti i mezzi, anche i più radicali, erano il lasciapassare nella lotta quotidiana per un pezzo di pane, per cercare di mantenere o salvare la vita, per rendersi il più possibile invisibili, per infilarsi tra le prime file di prigionieri, e in mezzo, nel tentativo di ripararsi dal vento e dal calcio dei fucili, per inventarsi un mestiere o una professione che rendesse idonei e utili sperando di essere incolonnati nella fila giusta indicata da un cenno di mano totalmente indifferente alla sorte del malcapitato.
“Vi prego, vi consiglio una sola cosa: rasatevi ogni giorno, se possibile. Non importa con che cosa, anche una scheggia di vetro può esservi utile, oppure date il vostro ultimo pezzo di pane perché qualcuno vi rasi. Sembrerete più giovani, le guance saranno rosee, dopo che le avrete raschiate. Non ammalatevi, non dovete avere l’aspetto malato! Se volete restare in vita, avete solo un rimedio: date l’impressione di poter lavorare. Basta che zoppichiate un poco, per una piccola, banale ferita provocata da una scarpa stretta. Se una SS se ne accorge, vi chiama con un gesto e all’indomani andate di sicuro al gas. Quindi, ricordate bene: rasatevi, camminate dritti”.
Il lager dove applicare la “scala della felicità relativa”: riuscire a lavorare in fabbrica piuttosto che in distaccamenti all’aperto e, tra quelli all’aperto, almeno in quelli dove ci fosse meno melma possibile in cui sprofondare e che erano, comunque, sempre preferibili all’essere adoperati per lo svuotamento delle latrine. Felicità, quindi, molto ma molto relativa, sentendosi, in ogni caso, sempre meno esseri spirituali, con libertà interna e valori personali, e sempre più parte piccolissima di un gregge trascinato qua e là mentre tenta di sfuggire ai latrati e agli attacchi dei cani, alle grida, ai calci con il tacco degli stivali. Sempre meno sensazione spirituale e la certezza di essere solo una palla con cui il destino gioca. Una palla senza uno scopo preciso, un futuro certo, e con l’unico tentativo di resistere e rimbalzare in attesa, forse, di un ritorno, a guerra finita, agli affetti di sempre. Palla di destino che fa fronte all’esigenza del momento applicando le parole di Nietzsche, “chi ha un perché nella vita sopporta quasi ogni come”. Nell’abisso in cui si era precipitati affiorava nient’altro che l’essenza di fondo di quello che chiamiamo l’umano, un’amalgama di bene di male.
Amalgama come sola essenza dell’uomo, l’uomo che sempre decide ciò che è, che porta in contemporanea la possibilità di abbassarsi ad azioni immonde o innalzarsi non cedendo a compromessi. È in contemporanea l’uomo che ha inventato i luoghi di sterminio con le camere a gas ma è anche colui che nelle stesse camere vi è entrato a testa alta. Il luogo dove, dopo una giornata di sfinimenti, vestiti di stracci, privati di nome, indicati con un numero tatuato, codice a barre di un
pezzo qualsiasi, fiaccati nel corpo e nello stomaco che una misera brodaglia non riesce a intiepidire, conserva ancora la meraviglia di una domanda ricorrente: perché a me, oggi, la vita è stata risparmiata?
Più o meno la stessa domanda che si faranno i pochi reduci dai lager: perché io, proprio io, sono tornato indietro? Domande senza risposta. Domande che si infrangono contro il silenzio. Non c’è un perché tra un Tu sì e un Tu no. Anche dio, qualunque dio, non sa rispondere, o perché, nonostante tutto, non c’era, impegnato a guardare altrove, oppure era già morto isolato fuori dal campo e i morti non parlano.
Può parlare però l’indifferenza, di ieri e di oggi, e allora possiamo affidarci ad un monito, ad una indicazione di perenne civiltà e umanità: “Non siate indifferenti, non omologatevi e stupitevi del male altrui” – Liliana Segre, Bergamo, 12 ottobre 2018.
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