
DiarioXY . LUSSURIA
Kafka upside down
In 10 Aprile 2021 da Chiara MenardoUn mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. «Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio.
Franz Kafka, Metamorfosi
Si accorse subito che qualcosa era cambiato. Una sensazione mai provata, come se il suo corpo fosse grande. Troppo grande e indifeso.
Mancava qualcosa, c’era qualcosa di troppo. In principio era buio poi, come se si aprisse una saracinesca, gli apparve il sottotetto in cui stava dormendo fino a un attimo prima. Rispetto a quando si era addormentato vicino al muro sbrecciato ed era ancora chi era – una blatta scura e coriacea -, era strano. Per incominciare, quelle che aveva negli occhi non erano più immagini sfaccettate e ricomposte, grigie e bianche, ma un unico, grande quadro a colori. Visto attraverso un cono. Strane cose, i colori, quando non sai cosa siano. Ed era tutto molto più piccolo di quanto se lo sarebbe mai immaginato.
Provò a muovere le zampe: ce n’erano meno del solito ed erano lunghe, dalle estremità piatte che terminavano in appendici mobili.
Aveva freddo, era molle e sentiva, per la prima volta nella sua vita, un dolore strano lungo tutto il corpo. Mosse le estremità superiori, quei rami lunghi, e si tastò il capo. Fili. Era ricoperto di fili, più lunghi e morbidi sulla sommità, corti e ispidi in faccia. Strana cosa toccarsi la bocca per la prima volta e scoprire le labbra, i denti, la lingua.
Smarrito, si guardò intorno. Abbassò lo sguardo appena in tempo per scorgere il movimento veloce di decine di esserini scuri con antenne e tante zampette che si infilavano nelle fessure del muro cui era appoggiato. Tante zampe, corpo scuro, antenne: provò qualcosa di simile alla familiarità. Le estremità inferiori erano fredde, il pavimento di assi sbrecciate e rotte faceva male, contro quella corazza morbida, elastica e chiara che gli ricopriva il corpo.
Provò a tirarsi su. Mai così in alto era stato, se non quando si arrampicava, appiccicato alla solidità rassicurante di un muro. Che cosa strana gli stava accadendo.
Continuò ad esplorare il sottotetto coperto di polvere e la sua nuova forma. Peli. Pelle. Unghie. Braccia mani piedi gambe torace un coso che penzola in mezzo alle gambe dita capezzoli costole che sporgono ai lati del petto collo orecchie naso sporgente due occhi, solo due, ciglia e sopracciglia e le guance le labbra le vertebre che spuntano. … sentì un brontolio venire da dentro.
Bisognava infilare qualcosa in bocca. È istintivo nutrirsi, non c’è bisogno di pensare. Fame. Cibo.
Quale cibo, però? Si accostò a una poltrona zoppa e consunta. Avvicinò le labbra estraendo appena la punta della lingua. Annusò. L’odore era pessimo, il gusto peggiore. Sapeva di muffa cattiva, quella che aveva sempre lasciato da parte, anche quando era normale.
Vicino a una finestra rotta c’era un secchio pieno di acqua stagnante, marrone di ruggine e rimasugli di tegole. Una gamba dietro l’altra, allargando d’istinto le braccia, fece il suo primo passo. Era tutto così strano. Poi un altro, e uno ancora. Raggiunse il secchio, si acquattò e tuffò la testa nel liquido scuro. Meglio, molto meglio così: bevve fino a non avere più sete.
Gli pareva di sentire qualcosa, dentro la testa: immagini e suoni, come se vedesse senza vedere. Colori, sensazioni, suoni che non passavano attraverso le orecchie eppure c’erano, ovattati e silenti. Come si definisce d’altronde un pensiero, quando non hai le parole?
Portò le mani alle orecchie e, senza capirne il motivo, alzò il viso spalancando le labbra. Soffiò fuori l’aria: un suono rauco gli uscì dalla bocca. Aveva fame, il ronzio di immagini e rumori silenziosi che proveniva da qualche parte, dentro di lui, non lo lasciava in pace un istante.
Se fosse nato umano avrebbe saputo. Il traffico muto nella testa, i suoni grattugiati che provenivano dalla sua gola, le appendici mobili e prensili che dipartivano dal busto, i capelli, la barba incolta, il senso di freddo e il dolore delle schegge di legno e dei frammenti di mattoni e di malta su cui era disteso al risveglio…
Ma, fino a un momento indefinito del suo recente passato, … era altro, nato da un minuscolo uovo traslucido insieme a centinaia di suoi simili. Senza alcun nome né voce. Senza idea alcuna di cosa fosse un pensiero.
Un mattino, al risveglio da un sonno senza sogni – poiché un insetto non ha sogni-, … si trovò trasformato in un essere umano.
Fosse nato uomo, avrebbe realizzato quanto la situazione fosse strana, senza precedenti né termini cui riferirsi per risolvere la questione. Fosse nato uomo, avrebbe pensato che, forse, tutto quello che stava accadendo era un sogno, un incubo dovuto alla cena troppo pesante, ai problemi di lavoro o di cuore, all’inquietudine sottile che, ogni tanto, pervade ciascun essere umano e che non ha spiegazione immediata. Ma … non era nato uomo, non aveva dimestichezza con null’altro che non fosse un processo meccanico: spostarsi per cercare del cibo, mangiare, liberare l’intestino, accoppiarsi, riposare, morire.
Non c’era alcun precedente e, se anche ci fosse stato, se fosse accaduto ad altre blatte di svegliarsi un mattino improvvisamente trasformate in persone, … non lo avrebbe comunque saputo.
Continuava a spostarsi per la stanza tastando le pareti e i rifiuti ammonticchiati, guardando se stesso e il pavimento, il soffitto, i vecchi giornali ingialliti e i mobili rotti abbandonati negli angoli da chissà chi, chissà quando. Persistente, la sensazione di vuoto al centro del corpo, i rumori sordi e ovattati, il senso di fame. E nulla, lì intorno, che sembrasse utile a colmare i morsi allo stomaco. Si accovacciò in un angolo, sorretto dal muro. Aveva provato a salirci su, come ai vecchi tempi, ma le nuove appendici non erano adatte.
Immobile, osservava con la sua nuova vista intera, ridotta e a colori, l’ambiente. Non aveva più sentito il bisogno di emettere suoni. Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto così, cercando di attutire il freddo abbracciandosi cosce e ginocchia, stringendole forte.
Un movimento tra le ragnatele che penzolavano lente, danzando al ritmo di uno spiffero che si insinuava tra le fessure. Esseri timidi e scuri iniziarono a uscire da una crepa nel pavimento. Di nuovo sentì quel senso vago di familiarità, come se sapesse che, in qualche modo, aveva qualcosa in comune con quelle zampette e quei gusci, con le antenne mobili e la circospezione di chi sa di essere piccolo, impaurito e invincibile.
Spostò lentamente una mano. Piano, più piano, per non spaventarli. Non sembravano avere paura di lui: forse, anche loro avvertivano una qualche forma di comunione con l’essere grosso e nudo rannicchiato in un angolo, coperto di polvere e pelle. Dita e insetti si avvicinavano piano.
Uno, poi due, tre, quattro salirono sul palmo. Senza spaventarli, con calma, alzò la mano, fino a portarli all’altezza del viso. Li studiò un solo istante. Aprì la bocca.
Li sentì scrocchiare tra i denti.
*da un’idea di… grazie.
Anno di pubblicazione: 1915
Prima edizione italiana: Editore Vallecchi, Firenze: 1934 – Traduttore: Rodolfo Paoli
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