
DiarioXY . LUSSURIA
La ballerina di carta velina
In 26 Agosto 2017 da Chiara MenardoSe solo tu riuscissi a sfiorarmi i capelli anche solo per un attimo.
Se solo riuscissi ad avvicinarmi a te per un istante potrei raccontare l’intero universo, sussurrarlo piano al tuo orecchio sordo.
Se solo riuscissimo …
Allora, ti insegnerei a volteggiare su una gamba sola, piroettando oltre le nuvole dipinte sul muro, voleremmo leggeri come nessun altro è mai stato, più in alto delle pareti di questa stanza, fuori dalla tua scatola di latta, lontani dal mio castello di carta.
E tu, per tua parte, potresti insegnarmi la bellezza della severità e la gioia prudente della solida terra.
Siamo gli opposti, la carta velina e lo stagno pesante, ed è proprio perché le mie braccia si rivolgono al cielo e la tua materia ti ancora al basso che, insieme, noi siamo perfetti, più perfetti di tutto. Più perfetti di Dio.
Un attimo, è stata una notte passata in un lampo. Tutto intorno a noi il baccano della libertà, la gioia perfida e fuori controllo di chi si sente, per magia, sciolto dall’obbligo dell’immobilità e, allora, ecco il caos. Tra le danze sfrenate di marionette e di bambole accompagnate da strumenti ebbri e impazziti, con gli animali di pezza a correre fieri come i cavalli della prateria davanti ai tuoi fratelli storditi dalla follia della notte, tutto era vortice e risa, movimento e rumore.
Tutto tranne noi, che abbiamo trascorso quel tempo senza freni persi l’uno nello sguardo dell’altra, contemplando i prati verdi e le piogge, gli arcobaleni e il sole, la neve e il vento, la luna, le stelle e gli astri. Tutto quello che non abbiamo mai visto né conosciuto, l’abbiamo trovato uno negli occhi dell’altra.
Quanta bellezza, quanta poesia, quanto amore è entrato nel mio piccolo, inesistente cuore di carta, quella notte.
Imperfetto e bellissimo, sei più bello dei tuoi fratelli tutti uguali, interi e intonsi, tronfi della loro normalità. Tu sei più bello di qualsiasi altra cosa che un uomo o un Dio abbia mai creato, lo sai? Perché custodisci, in quei tuoi occhi dipinti, uno scrigno di pensieri e di note, di canti scolpiti in un corpo e uno spirito cui tu credi, lo so, manchi qualcosa.
E invece, no. Hai tutto, hai di più.
Hai me.
E non riesco a dirtelo con le mie labbra mute, non so come dirtelo se non con lo sguardo, se non rimanendo qui ferma sull’uscio del castello di carta, mentre potrei partecipare alla bolgia festante che ci vortica intorno.
Riesci a vederlo, a capirmi? Sei lì, immobile e muto, e mi guardi e mi parli, e ti parlo da prima di oggi, da prima del tempo, da prima delle forbici che mi hanno ritagliata dal foglio, ripiegata e dipinta con cura, da prima che una mano callosa, esperta e segnata dal tempo ti fondesse da un vecchio cucchiaio, da prima che ti mancasse un pezzo, quel pezzo di gamba che ti impedisce di sentirti uno, intero, libero di correre qui e di danzare con me.
E poi ti sei perso. Non so come o perché, ma hai obbedito alle parole invidiose e alla maledizione di un ghigno fatale, spuntato di notte da una scatola a molla: come se il tuo destino appartenesse a una vecchia astiosa tabacchiera senza né cuore né dote, che ci ha dannato per segnare il suo territorio, così come i cani segnano gli angoli. Come se essere arrivata per prima fosse garanzia di possesso e comando sul cuore. Hai obbedito all’assurdo.
E mi sono persa, senza di te, pur sentendo che saresti tornato a fissare i miei occhi dipinti. Ho sollevato ancora più in alto le braccia di carta sottile, lanciando una supplica oltre le torri più alte del castello, che il Fato ti facesse tornare da me perché sapevo che, ovunque tu fossi, noi non esistiamo se non insieme.
Sei tornato.
Il cerchio si è chiuso, noi abbiamo ragione ed è il resto del mondo ad avere torto, perché sei stato di nuovo qui, davanti a me, a guardare l’acqua infinita del mare dentro i miei occhi; a raccontarmi, muto, di buio e di fango, di guizzi e di stasi. A raccontarmi, impettito e gioioso, senza dire parola, che tra tutti i luoghi del mondo, è questo il tuo posto.
Io non lo so cosa sia stato a scaraventarti nel fuoco, se la dannazione di una tabacchiera arida o la semplice mano e il capriccio di un bimbo, ma quando ti ho visto laggiù, in mezzo alla luce rovente, ho chiamato il vento, che mi portasse da te. Ho supplicato e ho pianto, muta e immobile, di non esistere più, se non con te.
E finalmente, hai potuto sfiorarmi i capelli, ho potuto sussurrare, per il brevissimo istante che ci hanno concesso le fiamme, tutto quello che le mie labbra mute volevano dire al tuo orecchio sordo. Che noi due siamo uno, insieme da prima del tempo, oltre il tempo.
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Titolo: Il soldatino di stagno (originale: Den standhaftige tinsoldat)
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Autore: Hans Christian Andersen
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Prima edizione: 1838, come quarto volume di Eventyr, Fortalte for Børn
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