
DiarioXY . LUSSURIA
Olio su tela
In 29 Ottobre 2016 da Chiara MenardoIl panorama si allarga su una porzione di specchio polveroso e una finestra dai vetri sbrecciati e rotti. Il passaggio dei giorni, dei mesi e degli anni è tutto qui, in un infisso che si affaccia sul cielo che cambia e sulle tegole grigie dei tetti che intravvedo appena sotto i comignoli sporchi di fuliggine nera.
Non riesco a voltare lo sguardo, la testa o il corpo, sono immobile e fermo. Possiamo definire il mio stesso essere… piatto. Ciò è indubbio e, al contempo, sbagliato.
Un tempo, circondato di sete finissime, ero il fulcro della grande camera ottagonale, delle sue sete multicolori appese alle pareti e del grande baldacchino a proteggere il letto: vegliavo sui sonni del giovane che ivi dormiva. Un camino rischiarava le sere e le grandi finestre si aprivano sulle primavere fresche di brezza. Bei tempi, bellissimi, quelli.
Finché una notte sentii qualcosa sulla pelle: dita appiccicose e spietate tiravano, deformi e cattive, disegnavano crepe scure sul bianco del mio volto immobile. Indefinita, sgradevole sensazione, fastidiosa e irreversibile ai lati della bocca, lungo le guance tirate giù, verso il basso. Ricordo solo la sensazione che mi avvolse, un senso alieno di fredda esultanza. Avessi avuto i denti, li avrei stretti fino a sentire il sapore dell’avorio nella bocca.
Che non ho.
Non so quante ore passarono, il buio fece in tempo a sfumare nella luce assonnata del giorno ed entrò lui, bello come il sole che squarcia le nubi dopo un temporale. Appoggiò gli abiti su una sedia, mi sfiorò di uno sguardo distratto per poi bloccarsi e avvicinarsi, fissandomi le labbra.
Quelle, le ho.
Iniziò a girare in tondo, a stropicciarsi gli occhi, a distogliere lo sguardo per voltarsi di scatto osservando il mio volto. Prese uno specchio e fissò la sua immagine, poi guardò me. Un’altra volta, poi di nuovo. E ancora, ancora e ancora.
Credo avesse bevuto: non mi pare uomo da reggere troppo il whisky, lui, così bello e splendente. Iniziò a gemere, piangere, biascicare sillabe prive di senso.
In ogni caso, anch’io sono bello e splendente, gradirei precisare.
Bellissimo, un capolavoro. Tuttavia, sto divagando.
Non mi rendevo conto di quello che stesse accadendo, ma il giovane mi sollevò di scatto e mi scaraventò dietro un paravento verde che non avevo mai visto – troppo di lato, oltre il confine della visione. Per amor di cronaca, quel verde era davvero pacchiano. Una piccola crepa nel gusto sublime del giovane Adone, il paravento verde brillante: nulla di buono può venire da chi sceglie un tale bislacco colore per la stanza padronale.
In ogni caso, non fui obbligato a torturarmi con quell’orrore per molto. Il giovane aprì gli occhi quando il sole era alto, la voce lieve nel sollievo di buoni propositi maturati durante il riposo. La porta si aprì, dietro l’esecrabile paravento giunsero altre voci velate di urgenza e tristezza seguite da urla e da un pianto intriso di un dolore così alto da stringermi il cuore.
Che, per inciso, non ho.
Arrivò il silenzio della porta accostata, dei singhiozzi soffocati nel cuscino: lontani, remoti, strazianti. Arrivò poi il ragazzo: guardandomi con gli occhi di chi aveva capito rovesciò il paravento e mi afferrò di peso, trascinandomi su per la scalinata. Sobbalzavo, gradino dopo gradino, verso la mia nuova, elevata destinazione.
Da allora, regno su una porzione di specchio polveroso e sui vetri rotti della finestra. Quando piove le gocce, come sputi, mi bagnano la giacca, la neve fluttua e posandosi senza rispetto sul legno dorato che mi circonda, le foglie d’autunno ogni tanto arrivano per sbriciolarsi da qualche parte sul pavimento grezzo e coperto di escrementi dei topi.
Il mio sguardo è condannato allo specchio, a seguire la mia corruzione incolpevole ogni volta che una di quelle sensazioni mi assale, ogni volta che sento e osservo la pelle cadere, i capelli tirare, le mani sanguinare del sangue- che non ho-, gli occhi perdere innocenza e colore, annacquarsi in tutte quelle azioni sublimi che sono i peccati più bui e abietti degli uomini.
Il bellissimo giovane ogni tanto sale le scale della grande casa per venire a contemplare se stesso, rompendo la mia solitudine. Lui è sempre splendente come un’alba sul mare. I primi tempi mi fissava con l’orrore negli occhi, ma ora non più. Ora esulta in cuor suo, e persino l’esultanza per il marciume che mostro in sua vece è splendida e innocente, riluce come un diamante, ha il profumo seducente e dolciastro di gardenia e di rose.
Un corvo è penetrato in quella che, da chissà quanto tempo, è la mia dimora. Lo vedo attraverso la polvere dello specchio, vola sbattendo contro le travi cercando un’uscita come impazzito e infine si posa, artigliando con le unghie nere il legno istoriato e ricoperto di una sottile, vecchia lamina d’oro. Qualcosa di bianco e fluido mi cola sul viso. Molto bene, me ne compiaccio. Non posso muovere le mani e pulire i vermi digeriti e puzzolenti che mi imbrattano la fronte e il naso.
Almeno non ne sento gli effluvi: non tutto il male viene per nuocere.
Godo per ogni sensazione che provo, per ogni volta che sento quel “qualcosa”. Provo a spiegarmi, a favore del pubblico muto e del corvo che ha mangiato pesante, a favore delle gocce di pioggia e dello specchio polveroso che rimanda, implacabile, la depravazione crescente del bamboccetto di porcellana di Sévres. Sono come una mano che si stringe intorno alla creta fredda e umida, sono il pugno e il fango: il pugno stretto con la forza irresistibile del peccato che spiaccica e plasma la creta cedevole e molle della volontà, finché questa non scivola dagli spazi tra le dita, gocciolando e imbrattando di una patina grigia la pelle e le nocche.
La volontà cola.
Avessi lingua e corde vocali lo direi, al giovane bambolotto immutabile, quanto è sublime la palude mefitica della corruzione. Invece, l’implume debosciato che ha chiuso la coscienza in soffitta eleggendola a latrina per corvi e piccioni, volteggia negli escrementi della società avvolta di cristalli e teatri a passi di valzer, senza nemmeno inzaccherarsi le scarpe. Mi inzacchero io in sua vece e, col tempo, nella solitudine della polvere, qui, in alto, più in alto di tutti, ho capito che godo di ogni singola sensazione.
Io sono vivo. Sono Dorian, Dorian Gray, quello vero, vitale, corrotto e maiale. C’è una copia di me, imbellettata e fredda, falsa come un Giuda qualunque, che viaggia per le strade del mondo convinto che la vita reale sia la sua.
Non ho un cuore, una profondità, muscoli o peli, io sono piatto: un olio su tela coperto di polvere e merda di uccelli. Pieno di crepe e ferite, con i bordi della giacca mangiati dai ratti. La porzione di specchio riflette un pozzo nero pieno di liquami, peccati e invidie, furti, tradimenti, omicidi, voltafaccia. Sono l’anima, felice e crudele, del bamboccio dorato morto anzitempo e inamidato nei colletti alti e nelle giacche in velluto pregiato .
Sono io, quello vivo fino all’ultimo tratto di pennello. E – oh, quale sublime felicità – non ho mai più posato lo sguardo sull’orripilante paravento verde.
Il libro…
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Titolo: Il ritratto di Dorian Gray
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Titolo originale: The picture of Dorian Gray
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Autore: Oscar Wilde
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Prima edizione: 1890
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