
DiarioXY . LUSSURIA
Desperate (?) housewife
In 2 Dicembre 2017 da Chiara MenardoGuardatelo ora, mentre prende il caffè in veranda e intrattiene gli ospiti. Gigione e tutto contento, ammirate la recitazione dell’attore consumato, convinto di essere regista e protagonista di questa spassosa commediola.
Signore e signori, gentile pubblico, un applauso a scena aperta a lui: mio marito.
Crede che io non sappia, convinto com’è di averla fatta franca per tutto questo tempo. Che scemo.
Certo che so, io so tutto. D’altronde, mi è familiare ogni sua espressione: l’ho osservato per anni, come un entomologo studia una blatta infilzata su uno spillo. Esattamente così, una blatta.
Non lo perdo di vista mentre porto il vassoio con i bicchieri di limonata ghiacciata e i canapé alle amiche che aspettano sedute composte al tavolo in giardino. Altre donne come me, mogli esemplari che riempiono il pomeriggio di chiacchiere sulle scuole dei figli, la predica del pastore domenica in chiesa, l’ultimo modello di lavatrice e le ricette per la perfetta cheese cake ai lamponi. Perfetta, come le nostre vite
Lo so, lo so eccome, io la conosco, la situazione. Lui, no: è convinto che io non sappia, il fesso.
Lui gigioneggia, sorride e si comporta come se tutto fosse sempre uguale, come se tutto fosse bello e lustro, scintillante come una coppa di latta. E dice sì, cara, ma certo, cara, come vuoi tu, cara.
Mi metto il rossetto, sistemo i capelli e annuisco. Certo, tesoro, facciamo questo e quello, portami a cena, voglio andare a teatro… e si va, a passo di danza, volteggiando verso il nostro domani di felicità senza ombre.
Perché mi metto il rossetto, sistemo i capelli, prendo il cappotto e sorrido? Perché so. So tutto di lui, dei suoi sforzi, delle scelte, dei rimpianti, dei ritorni a cuccia qui, ai miei piedi. So tutto di piedi e di staffe.
Ma quanto è magnifica l’apparenza, l’invenzione più sublime dell’animo umano. L’apparenza, il mio assegno in bianco. Caro, lui paga la sua codardia in comode rate da qui all’eternità, mentre infilo il cappotto e sistemo i capelli per bene: un ultimo tocco di lacca, la forcina al suo posto e si va.
Sapere è potere, diceva qualcuno che nemmeno ricordo chi sia. Aggiungo e preciso le parole del saggio: tacere sapendo è il potere più grande, la chiave di tutto. Nel mio caso, la chiave del lucchetto la tengo ben stretta tra le dita guantate.
“L’arrosto è in tavola, caro”. La casa perfetta, i bambini puliti, educati e ordinati, come li vuole lui, come mi ha insegnato la mamma, come si addice a una moglie. L’arrosto è in tavola e lui non sa che prenderei il coltello e glielo pianterei tra le scapole se solo potessi, se mi convenisse, se dopo non dovessi ripulire tutto.
E invece no, niente coltello, rimango e rimane. Sorrido, metto il rossetto, aggiusto i capelli e lo guardo contorcersi tra i pezzi di vetro dei sogni di libertà che si sono rotti sbattendo contro sulla realtà.
Chi è lei? La segretaria? O la ragazza che serve i caffè al bar, quella carina con i capelli biondicci e le fossette? Ma tanto non mi interessa chi sia, io metto il rossetto e mi aggiusto i capelli, prendo il cappotto e i guanti e via, verso l’opera, tenendo il braccio del mio irreprensibile marito che sorride e gigioneggia, come un attore sul palco, senza rendersi conto che so. Io sono la moglie e tengo strette le chiavi di tutto: della casa, della cassa, della rispettabilità lustra che così tanto gli serve e ci piace.
In ogni caso lui non sa e, visto che è scemo e non ha alcuna voglia di guardare nel pozzo profondo della verità non saprà mai che il ragazzo che l’estate scorsa è venuto a potare le siepi non è stato poi così male. Di certo, meglio di lui. E nemmeno il suo collega, quello che adesso è stato trasferito, quello che mi ha toccata nei bagni dei dirigenti durante la festa aziendale per le famiglie dei dipendenti non mi è dispiaciuto, così come tutte le altre distrazioni di cui non ricordo neanche più il nome.
Le tende sono sempre pulite e stirate, la cena in tavola all’ora più consona: non troppo presto, non troppo tardi, il silenzio delle parole di comodo e dei sorrisi da dipingersi in volto perché è così che si fa, è così che deve essere nella nostra villetta di periferia profumata di fiori d’arancio e ciambelle, di fronte al parco, con le due auto parcheggiate nel vialetto e la casa di mamma e papà solo due strade più in là. È tutto così pulito, ordinato, così prevedibilmente borghese e carino, come la nostra famigliola da cartolina senza uno slancio, senza affetto, senza più nulla in comune se non le firme sui conti e le mascherine di carnevale di lei moglie perfetta e devota e lui marito solido e irreprensibile.
Come siamo brillantemente vuoti, splendidamente falsi, impeccabilmente conformisti. Quanta felicità buttata in cantina per non ammettere che siamo fogli di un libro finito e ormai marcio.
Un giro di valzer e champagne, per favore, ancora un altro bicchiere mentre il mio adorabile marito recita l’uomo tutto d’un pezzo e io mi aggiusto i capelli e mi metto il rossetto. I cotillon a capodanno, il tacchino a Natale, la recita tutto l’anno, finché non ci chiudiamo la porta di casa alle spalle e non cala, finalmente, il sipario. È in quel momento che tutto diventa vero: senza pubblico, senza trucco, senza forcine e rossetto, è solo freddo, gelo, e il mio mezzo sorriso nascosto dalla rivista di moda.
Inchino, applausi, buio.
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