INVIDIA . Lector In Invidia
Musica dal fronte
In 5 Aprile 2018 da Attilia Patri DPMukhayyam al-Yarmouk, il campo di Yarmouk, alle porte di Damasco, è un parallelepipedo di due chilometri quadri il cui perimetro raccoglie, come in un girone infernale, circa diciottomila anime di rifugiati ormai ridotte a larve umane sui resti di quello che era un borgo brulicante di mercanti, notabili borghesi e frotte di bambini vocianti. A segnalarlo cartelli stradali ormai ridotti a lamiere talmente confuse e grottesche che volerli chiamare “indicazioni” è quasi una pretesa, oppure, nei giorni di cielo sgombro dalla pioggia di bombe e proiettili, fino a pochi anni fa, erano le note di Beethoven, liberate nell’aria e provenienti da qualche angolo tra cumuli di calcinacci, case sbrecciate e polvere danzante, a indicare il luogo della disperazione acquisita ormai a tempo indeterminato.
Tasti d’ebano e d’avorio di pianoforte issato su un carretto da ortolano, un pianoforte itinerante, e dita lunghe, magre, intirizzite dal freddo, Aeham Ahmad liberava, nell’aria intrisa di terrore, musica mista a speranza riportando un’eco di vita perduta, liberava musica come forma di resistenza pacifica al frastuono di rumori di attacchi ad intermittenza.
Dal 2012 e fino al 2015 i suoi video in una Siria martoriata hanno fatto il giro del mondo riportando, agli occhi di tutti, gli sfondi di una città ridotta ai minimi termini di mura, di bisogni elementari , di sopravvivenza strappata a un destino non scelto e, in primo piano, un ragazzo di 27 anni, seduto a una tastiera, quasi una caricatura di se stesso dentro a pantaloni larghi e magliette che, su spalle troppo magre, sembravano quasi appese a grucce. La musica – quella passione che fin dall’età di cinque anni si era fatta strada in Aheam Ahmad indicandogli, una volta cresciuto, la via del Conservatorio, i dieci anni di studio, il diploma in musica classica come ragione di vita – era diventata nutrimento di spirito, per sé e per gli altri, in luoghi dove c’era solo desolazione, miseria, paura.
Suonava per i bambini e i ragazzi che gli si affollavano attorno come a un novello Pifferaio Magico animato da nobili e umane intenzioni confluenti in quel voler ricordare e riportare un po’ di normalità, richiamare quella bellezza negata da Storia dai contorni non sempre chiari, allontanare temporaneamente, da quei corpi denutriti e vestiti di stracci, il pensiero della barbarie di chi, allo stremo, ha dovuto resistere nutrendosi di quel che trovava e se ne trovava. Note di pace sotto un cielo di guai interrotte il 17 aprile 2015, giorno del suo compleanno, quando i jihadisti del gruppo dello Stato Islamico sono entrati nel campo profughi di Yarmouk, hanno bruciato il suo pianoforte e ucciso barbaramente un bambino che lì vicino lo stava ascoltando. Per Aheam, per la sua sopravvivenza, quel doppio dolore è stato il segnale che era giunta definitivamente l’ora di partire, zaino e miseria a bagaglio e percorrere a piedi e con mezzi di fortuna, non certo Gran Turismo, quelle migliaia di chilometri che separavano Damasco da Berlino.
Stabilitosi in Germania, a Wiesbaden, in un’altra latitudine, ha ricominciato, con passione, a suonare e cantare per i bambini sballottati nell’inferno dell’esilio; è un pianista professionista ormai libero dall’assedio e dalla fame; fa concerti ufficiali nei teatri ed esecuzioni gratuite per strada. Nel dicembre 2015 ha ricevuto l’International Beethoven Prize for Human Rights e nel 2016, fondendo musica classica e canti arabi, ha pubblicato il suo primo disco “Music for Hope” che, nel raccontare il dramma della guerra in Siria, si è fatto strumento di sensibilizzazione e di coinvolgimento di popoli e governi.
La storia di Ahmad è storia di musica al fronte, la musica della speranza, della voglia di vivere e dell’andare avanti nonostante tutto. È lo stesso amore per la musica che anima il romanzo autobiografico di Wladyslaw Szpilman, “Il pianista”, dal quale Roman Polanski, nel 2002, ha tratto l’omonimo film vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes, tre premi Oscar®, e innumerevoli riconoscimenti.
Diverse le vicende storiche, diversi i periodi di accadimento ma, anche per il pianista e compositore polacco di origine ebraica Szpilman, la vita e la resistenza dall’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, dall’occupazione di Varsavia, dalla creazione del ghetto, dalla vita e dalla fuga e sopravvivenza fuori dal ghetto fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa, si imperniano e radicano tenacemente nella forza della passione per la musica che diventa un vero e proprio ideale di sopravvivenza.
Władysław Szpilman che, nel bel mezzo dei bombardamenti, si siede a un pianoforte per suonare Chopin ricava la forza necessaria per resistere alle difficoltà incontrate e nella sua solitaria odissea troverà, nel momento estremo del bisogno, un aiuto assolutamente inaspettato nella mano che gli verrà tesa da un ufficiale dell’esercito tedesco, il Capitano Hosenfeld: una mano tesa in nome del medesimo amore per la musica. Il pianista diventa cosi, pur nella crudezza dei fatti raccontati, una riflessione sul potere salvifico dell’arte; quell’arte che, anche nell’abisso più nero, porta luce all’esistenza pur stentata e restituisce quell’umanità che la Storia e i gli ordini impartiti seppelliscono.
Le storie di Ahmad e di Szpilman si mescolano con quelle di altri musicisti, si amalgamano con le note di Vedran Smailovic, il violoncellista di Sarajevo che, durante l’assedio nel 1992, suonava per onorare la memoria dei civili uccisi mentre facevano la fila per il pane o alle melodie del direttore dell’Orchestra nazionale sinfonica dell’Iraq, Karim Wasfi, sceso più volte tra le macerie di Baghdad, appena colpita da autobombe, per trasformare le sue esecuzioni in messaggi di pace, bellezza, comprensione, integrazione. Si intersecano con la storia dei Knebez Dawle rifugiati prima a Beirut e poi in Europa a portare le loro canzoni o con quella del siriano Monzer Darwish autore di “Syrian Metal is War” che illustra la sopravvivenza di una comunità riunita sotto un genere musicale da sempre osteggiato nel Paese, quella Metal.
Musica, dunque, al fronte. E storie di vita vera, da spendere in qualche modo, ma sempre con un intento positivo. Musica forte e bella così diversa dalla musica bassa e stonata che arriva in questo ultimo periodo dalle linee di frontiera che sembrano diventati veri e propri fronti, testa a testa con quello che sembra il nemico, anche quando il nemico ha come arma solo un ventre gravido. Linee di frontiere, linee rosse, terre di mezzo, dove finisce uno e comincia l’altro, dove sconfinare nel bene o nel male senza grossi interrogativi o problemi di coscienza, dove annegare buon senso perché lo richiede la norma vigente o dove dimostrare dignità sapendo di dover pagare in proprio. Frontiere dove tutto dipende da un sì o un no, frontiere di camionette che portano indietro disperati nella disperazione, frontiere di primo soccorso e muri virtuali ma attenti a dove si mettono i piedi, frontiere ancora innevate ma il vero gelo è dentro.
Frontiere e le musiche stonate della guida alpina francese punita per aver soccorso una donna incinta, la musica stonata del rifiuto di passaggio in terra francese di un’altra donna, Beauty, nigeriana incinta e malata di linfoma, la musica stonata di blitz oltre il proprio territorio, senza avvisi, appellandosi ad accordi vecchi e comunque non rispettati. È la musica stonata di Tel Aviv che si vuol liberare dei migranti eritrei e somali in fuga dalla guerra considerati da sempre come migranti economici, non rifugiati, e relegandoli al sommerso del quale sbarazzarsi a piacimento come elementi da deportazione. È la musica stonata delle polemiche senza assunzione di responsabilità e dignità.
È la musica stonata della nostra pietà davanti alla foto del bambino Aylan, scarpe scure, pantaloncini blu, maglietta rossa, residuo spiaggiato sulla sabbia del mare di Bodrum, l’avanzo tenero inerme del naufragio dell’ennesimo barcone; è la musica stonata della gara di solidarietà per il prematuro Israel nato per parto cesareo da Beauty, malata, che tuttavia qualcuno ha rifiutato di aiutare.
È la musica stonata della nostra paura verso gli adulti che accompagnano il bambino. Eliminati gli adulti, di fronte al pargoletto, ci sentiamo tutti un po’ Re Magi o partecipi come la corona di folla che attornia il Bambino nella Adorazione dei Magi di Leonardo – Firenze, Galleria degli Uffizi, 246×243 cm, dipinto a olio su tavola e tempera grassa.
Partecipi come gli astanti nel quadro che si sporgono, indicano, manifestano chiaramente i loro sentimenti più nobili. Si guarda il bambino ma spostando il punto di osservazione, appena dietro, appaiono, chiari, altri simboli: un palazzo in rovina, una scena di battaglia, altra gente che si agita e sullo sfondo un paesaggio marino o lacustre. Guardiamo il bambino ma dimentichiamo le rovine, la guerra, il mare attraversato in qualche modo, il liquido amniotico che lo ha contenuto.
Dimentichiamo il perché è lì: applichiamo comprensione, disponibilità, aiuto e pietà part-time e, questo, non è quello che si può definire, propriamente, uno spartito di buona musica.
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