
Le opinioni superbe . SUPERBIA
L’abisso, perché…
In 30 Aprile 2022 da Redazione Seven BlogL’abisso e le sue forme, l’abisso e i suoi abbandoni, l’abisso e l’umana imperfezione. Il tema di aprile 2022 è abisso: noi ne scriviamo raccontini superbi…
da Debora
Poiêtês
«Non è che lo scrittore debba essere necessariamente infelice. Lo è in conseguenza a un tormento che non dà scampo. E non dà scampo perché è irrisolvibile, perché non ha risposte. Le domande sono necessarie per uno scrittore, lo salvano dall’immobilità. L’immobilità lo farebbe morire, capisci? È tutta una questione di luci e di ombre».
Non capisco, a dirla tutta, non mi sono così chiari tutti quei concetti. Io sono un matematico con un ritardo, l’ho detto. Non sono portato alle scienze umanistiche, ma che ne so io di scrittura, di felicità, di infelicità. Se ne sapessi qualcosa, se mi ponessi la domanda, sarebbe come riconoscere di essere stato, almeno una volta, almeno un attimo nella vita, felice, o infelice. Ma io non so nemmeno se sono stato vivo.
Annuisco comunque. La tavola è davvero ricca, devo rendere onore a Vicky. Mi servo per la terza volta il paté di azuki. Non lo aveva mai preparato prima e lo trovo delizioso.
«Davvero ottimo, scusate se ne prendo ancora».
Vicky accenna un sorriso ma non sembra più di tanto lusingata dal complimento.
Liam brontola qualcosa, poi, con la bocca ancora piena, continua il suo discorso. «Lo scrittore scrive perché è quello il suo fare, è in quello che si configura come Poiêtês, è lì che realizza il suo ingegno e diventa artista. Sa scrivere, e scrive. Ma ciò che scrive è di quanto più serio e fondamentale e struggente e apocalittico e stupendo ci sia al mondo».
Deglutisco completamente il paté, e non oso prenderne un’altra fetta perché so che ci saranno primo piatto, due seconde portate con contorno e un misto di dolci, e che in più Liam mi aspetta per lo spuntino notturno.
Lo guardo. Non sembra interessato a noi. Non è mai stato così, egocentrico e autoreferenziale intendo, e la cosa mi stupisce. Parla della sua arte come se discutesse con la sua immagine riflessa allo specchio. Decido di ignorare il suo discorso. Forse perché spero sveli ciò che ha davvero dentro, che mi faccia capire il motivo di questo suo isolamento. «Vicky, come l’hai cucinato? Sono curioso».
Lei alza lo sguardo dal piatto. L’aria sembra improvvisamente pesante, si può tagliare talmente è densa. «Oh. Con azuki, shiro miso, rosmarino, cumino e capperi».
«È un piatto complicato».
«Niente affatto», dice lei sorpresa dalla mia constatazione.
E Liam va avanti. Comincia a voce bassa. «Lo scrittore ha un’etica che gli fa scrivere cose vere pur nella finzione, che gli fa usare la più candida sincerità anche nella fantasia». Poi alza leggermente il volume. «Non esiste scrittore superficiale, non esiste scrittore bugiardo, non credo nemmeno possa esistere scrittore narcisista, per ciò che il termine significa: innamorato di sé stesso».
Ripongo le bacchette in acciaio sul piatto. Fanno un leggero rumore di ferraglia, che mi innervosisce. Lui. È lui che mi innervosisce. Lo guardo fisso, respiro. «Cosa stai dicendo, Liam?».
Anche lui ora mi guarda. Finalmente. Dritto negli occhi, dritto contro la mia orbita. Ha le pupille sottili nei suoi occhi neri, ha due spilli contratti. Due cose rabbiose e leggermente vibranti.
«Sto dicendo che sono sincero. Zhēnchéng. Sincero, non mescolato, significa etimologicamente. Sto dicendo che credo ancora esista qualcosa. Dio, per esempio. Sì, dio. È un buon inizio per credere. Che me ne fott’ di cosa sia dio, che forme abbia, che sia sceso in terra nelle fattezze di chissà chi, voglio credere in dio, in una cosa impossibile, invisibile. Non crediamo più in un cazzo, non c’è più un cazzo in cui credere. E allora cosa dovrebbe essere un Poiêtês? Cosa dovrei significare io? Finché ci crederò, lei esisterà».
«Santo mondo, Liam, ma lo vedi cosa c’è intorno? Ci dicono che gente come me, con la mia divisa da supereroe, ci ha salvato dal Neo Medio Evo, dalle cose terribili che sarebbero potute accadere se il mondo avesse continuato a essere in mano all’Unione delle Chiese e ai guru delle multinazionali. E non sappiamo nemmeno se è vera questa storiella, se la miseria che vediamo, l’aria rarefatta, il maledetto solipsismo umano siano qualcosa di meno peggio, il male minore. Ma che cosa devo combattere io, con la mia matematica, col mio cervello che perde memoria ma che sa risolvere un’equazione in pochi secondi, con i maledetti ingranaggi malati che mi servono solo a progettare macchine e decodificatori?».
«E allora perché sei qui?».
Ci rifletto qualche secondo, vigliaccamente, come sempre. «Non lo so più».
Vicky si alza. Ho la sua vagina glabra all’altezza degli occhi, il suo clitoride sporgente, le piccole labbra che mi sembrano ipertrofiche, scure, enormi e molli, e per la prima volta il suo corpo mi eccita e mi fa rabbia. Ho l’istinto di prenderla e di sbattermela sul tavolo, violentemente, davanti a Liam. Lo farei davvero, se solo avessi bevuto alcol a sufficienza, e me ne fregherei di quello che reputo bene e male, giusto e sbagliato, come so che, per esempio, è male e sbagliato scoparmi una donna con la forza, ed è bene e giusto considerare un corpo nudo un semplice corpo nudo, punto. Ma perché deve stare nuda, quella donna, stare lì nella sua magrezza, essere stata baciata e toccata da D., esserlo ancora da Liam, e non dare nulla a me, non darmi un pezzo del suo essere, se non queste ricette macrobiotiche una volta al mese?
La afferro per un braccio, mentre si volta per raggiungere la cucina. Non sono io che lo faccio, non è la mia mano che diventa arrogante. È un altro, è un uomo arrabbiato, offeso, un essere che non crede in nulla e quindi stanco di chiedere scusa. «Férmati».
Lei mi guarda senza espressione. Ha qualche filo bianco nei capelli castani, me ne accorgo solo ora, fissandola per la prima volta, squadrandole il viso. Li tiene raccolti con delle forcine. «Libera i capelli».
Lo fa. Non ho mai impartito ordini, ma evidentemente mi riesce bene. Non protesta. Appoggia le forcine sul tavolo con la mano libera, quella sulla quale cade il braccialetto di pietre colorate, perché io le tengo ancora il braccio, che ora scotta perché il chip da polso deve essersi attivato. Ha capelli crespi e spettinati, né lisci né ricci, che cadono malamente sulle spalle, la riga da parte, una frangetta a un lato. Vedo Liam con la coda dell’occhio, credo si goda lo spettacolo, credo sia stato il suo scopo dall’inizio. Non so cosa gli sia accaduto in questo mese, non so se sia stato il nuovo libro a cambiarlo, a rivelargli qualcosa. Lo dirà questa sera, ce lo svelerà, ne sono certo. Ma ora è il mio momento, voglio portare questa cosa all’estremo, voglio fare impazzire la pazienza. Se mi dovrò servire di Vicky, farle un torto, lo farò.
Lui scoppia a ridere. «Coslovich, vi lascio soli. Vado in cucina a prendere il riso integrale con cavolo nero e shitake», dice alzandosi rumorosamente.
Lei mi guarda, sempre col suo braccio stretto dalla mia mano. Forse le sto facendo male, perché il braccio è rosso e lei respira forte. Gli occhi marroni riflettono una domanda. Finalmente quella donna indossa un’espressione. «Coslovich», mi dice. «Cosa vuoi fare?».
«Non lo so», ammetto. «Dammi del vino».
«Se mi lasci il braccio te lo verso», dice un po’ impaurita.
Che cazzo sto facendo? Che cazzo…
Mollo la presa, mi alzo, mi allontano dal tavolo come se volessi allontanarmi da me stesso. «Scusami, Vicky, scusami. Non so cosa mi sia preso, non so chi ero in quel momento».
«Oggi sei strano, Coslovich. Vado a prenderti il vino. E aiuto Liam».
Mi risiedo, sprofondo nelle mie mani, mi sento morire, mi sento un vero idiota. Il polso mi si illumina, Jiao si materializza davanti a me. «Una chiamata dal Neo Esercito tra Sān, èr, yī…».
«Tenente Coslovich, le confermo la missione di domani. Ore ventidue in cima al palazzo Kurtier. Il maresciallo Lorenz la porterà a destinazione», mi dice con grande serietà una donna dal viso squadrato e dagli zigomi esageratamente alti e appuntiti. Sembra finta.
«Va bene. A domani, ingegnere», e spengo senza sentire risposta.
«Una missione pericolosa, marescià?», dice con una certa cantilena. «Eccoti il vino che hai chiesto», continua ridacchiando mentre il rumore del liquido rosso attraversa la consistenza del vetro. Mi è sempre sembrato un suono delizioso, come quello di una contrazione peristaltica che avviene nell’esofago. Glu-glu-glu, fa il rumore. Che meraviglia, penso sempre, questo liquido contiene del veleno e le sue tracce rimangono sulle pareti del bicchiere e su quelle della mia faringe e del mio stomaco. Glu-glu, come giù, nel gorgo, nell’abisso.
Non so dirgli nulla, la tragedia si è conclusa così, con Liam che mi versa il veleno che io ho chiesto, e che siede di fronte a me, e con Vicky che torna, avvolta dalla sua pelle stanca, e che si rimette piano le forcine ai capelli stopposi.
Ci serviamo il riso a turno, lo mangiamo in silenzio, io e Liam beviamo vino, dice che mi fa compagnia, e Vicky non si oppone. Prendiamo tempo, un po’, nel vuoto, nel silenzio, rimettiamo a posto le emozioni.
Ripeschiamo ciò in cui crediamo, in cui non crederemo mai, ripeschiamo il mito di D.
da Caterina
Astrid
Astrid era salita in superficie, una piccola scappatella come tante sul fare dell’alba. Il suo era un gioco innocente e malizioso: raggiungeva lo scoglio si pettinava e, mentre il suo profilo si stagliava a oriente, si specchiava spargendo sull’acqua riflessi di sole. Questa abitudine non era sfuggita ai pescatori che si chiedevano chi fosse quella donna bellissima e lussuriosa che si mostrava e fuggiva qualche attimo dopo.
L’abate era certo che fosse il richiamo del male e che quella malefica creatura dovesse essere catturata. L’aveva spiata per tanto tempo e si era follemente innamorato di lei, ma il suo cuore gretto e duro non poteva avere spazio per l’amore, perciò aveva deciso di odiare quel simbolo di profonda lussuria.
E fu così che Astrid quel giorno non fece più ritorno nei profondi abissi marini.
Si risvegliò rinchiusa in una gabbia accanto a una mezza botte di acqua in cui bagnarsi e alleviare la sua sete. L’abate la spiava da lontano, i suoi turgidi seni e suoi fianchi squamosi evocavano in lui desideri di un piacere profondo e insoddisfatto, così ogni notte malediceva la donna-pesce madre di ogni lussuria.
Per conto suo, Astrid era sempre più disperata e trascorreva le sue giornate tra dolore fisico, paura e rimpianto. Sapeva, però, che se anche una sola lacrima fosse uscita dai suoi occhi sarebbe stata la fine.
Una notte, in sogno, vide il mare più profondo, gli abissi bui dove i pesci sono ciechi, quel luogo ancestrale dove vivono e muoiono le sirene. Il suo pianto represso trovò sfogo tra lacrime che si trasformarono in perle sferiche e perfette che rimbalzavano sul pavimento spargendosi in ogni dove. Il suo carceriere, da uomo cupido qual era, capì che Astrid poteva diventare la sua fortuna.
La povera donna-sirena, invece, era allo stremo, anche perché l’abate, avendo superato ogni remora, tutte le notti entrava nella gabbia e l’accarezzava. Un contatto viscido e molle a cui la donna-pesce non poteva sfuggire.
Una mattina, il pescatore addetto a rassettare la scomoda prigione, trovò Astrid svenuta nella botte e colto da pietà la trasportò in riva al mare. Una volta immersa nell’acqua marina la sirena riprese i sensi e, con un colpo veloce di coda, si allontanò verso il largo, ma fece presto ritorno: il pescatore l’aveva salvata, ma lei gli stava regalando la morte. Astrid incise la vena di un suo polso e fece bere il suo sangue al giovane uomo che, nel giro di un nulla, si trasformò in uomo-pesce.
L’abate ora è ancora lì a contare le perle che son diventare sfere di sego.
da Giorgio
Solo un passo
Solo un passo, piccola mia, un passo e basta, le disse lui dall’altra parte dell’abisso. Lei, però, non ci riusciva. Gli prendeva la mano, si sporgeva, provava a muovere il piede, ma il terrore di precipitare prendeva il sopravvento. Allora lui si sedette sul bordo dell’abisso e cominciò a parlare. Per un giorno intero le raccontò di come le stagioni cambiano il colore delle foglie. Lei immaginò i colori e si fece coraggio. Si alzò, gli prese la mano, si sporse, mosse il piede, ma la paura prese di nuovo il sopravvento. Allora lui si sedette di nuovo sul bordo dell’abisso e ricominciò a parlare. Un giorno descrisse il volo dei gabbiani, quello successivo, le raccontò di come i conigli scavano le tane, poi di come si può gustare una melagrana, di come seguire le impronte di un leprotto, di come affidarsi al muschio per trovare una direzione… quando non ebbe più niente da dire, si alzò, tese la mano e le disse: ora tocca a te. Lei gli prese la mano, la strinse forte forte forte forte… sorrise per fermare una lacrima e gli disse che era tutto bello, e che le sembrava di averlo vissuto insieme a lui, ma che l’abisso le faceva troppa paura. Gli lasciò la mano, sospirò un addio e tornò sui suoi passi.
Solo un passo, pensò lui mentre la vedeva allontanarsi, un passo e tutto avrebbe avuto un senso nuovo. Solo un passo, pensò, ma a lui ne bastò mezzo.
da Claudia
Nudi abissi
Ti ho visto, sai? Ti è proprio piaciuto. L’Oceano ha mostrato e nascosto tutto quanto. Mi ha lasciato fare, ti ha lasciato fare. Barriere di giochi di luci e sapore di sale intorno a noi. Per la prima volta non mi son nascosta dietro il rumore dell’acqua e ti ho chiamato. Un timido accenno al tuo nome per scaldare la voce. Colpo di tosse, lo dico a voce alta.
Se dovessi dare un nome alla gioia provata nel pronunciarlo, sarebbe una parola non ancora inventata. Un sostantivo grande, come lo scoglio che premuroso mi sorregge la mano.
Ti giri, mi guardi curiosa, ma poi udito e vista sembrano distratti. Ti chiamo ancora.
D’un tratto, una ragazza senza vestiti compare tra le acque e senza chiedere o chiamarti, ti bacia. L’ho riconosciuta! Era la tua amica… “Le amiche”.
I corpi si uniscono e solo l’acqua ne impedisce la combustione. Di due ormai ne vedo uno solo e spingono entrambi con forza. Giochi di mani, di graffi, forbici di cosce. Non posso più chiamarti. Il tuo nome si è trasformato in un nome comune di cosa, una cosa comune che non voglio pronunciare.
Mi manca l’aria e voglio vomitare. Chiudo gli occhi, ma vedo ancora tutto: ci sei tu, lei e non smettete mai di muovervi.
Sembra un porno e il porno mi piace, ma io il tuo porno non lo volevo vedere! E non c’è l’uscita da questo show a luci rosse. Il sipario non cala e la scena si sposta: divento lo spettatore di un video postato per ostentare gli affari vostri.
E parte in loop. Non ci sono flash news, né pubblicità, né pop-up.
E se non potrò spegnerlo, dovrò vomitare il dolore dalle budella e sputare lacrime di sudore, perché negli occhi lacrime non ne ho più.
E non mi piace, no, ma non so come uscire da questo video pericoloso e ora lo guarderò tutto, fino a quando non sarete voi a fermarvi. Finché il desiderio di chiamare forte il tuo nome si esaurirà, come l’incessante lotta di anguille vive lasciate morire sotto sale.
E ora noto che avete finito… Vi guardate maliziose e i corpi nudi lentamente si allineano dentro una vasca da bagno. Due calici sono pronti per voi. Non sono bollicine chic, quello è il mio sangue, il liquido vischioso che hanno perso tutte le ferite fatte stasera. Godetevelo!
Condanna a morte definitiva.
Pena massima, quella di avervi viste senza potermi fermare, senza potervi fermare, senza potermi fermare. Siete diventate video postato.
“Incompletamente complete”, è la firma finale nella descrizione del vostro post sui social.
E io continuo a non poter uscire nemmeno dal finale, di un qualcosa che ho dovuto guardare, ma giuro che intendevo bloccare.
Perciò cerco per l’ennesima volta di uscire, ma riparte in loop.
Tradimento di tradimenti. Corpi struscianti e gementi. Calici di brindisi taglienti.
E se stessi dormendo? Beh, svegliatemi, svegliatemi voi se non ci riuscissi, non ce la farei ad andare avanti così.
E con la voglia di scappare, sono risucchiato dentro una spirale nera con tante voci che rimbombano in testa e raschio le mani in una superficie stranamente morbida… Noto schiudersi raggi solari neonati.
Cerco con la mano l’iPhone e il bicchiere mezzo pieno cade dal comodino. “05h30”, mattina. I loro corpi non si sono sfiorati. Non ho ancora vomitato dolore, il sangue non è uscito da quelle tremende ferite.
Mi chiedo per quanto ancora e guardo la tua foto sul comodino sbiadita sempre di più.
Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.
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