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Politica, classismo e fede: lo Snowpiercer
In 10 Maggio 2021 da Debora BorgognoniIl metodo più semplice è paragonare la serie tv al film. Il motivo è di rapida spiegazione: uno dei produttori esecutivi, il nome più importante, è Bong Joon-ho, regista del film del 2013. Pare impossibile non pensare al paragone, così come pare ovvio aspettarsi il tema della lotta di classe, cui il regista coreano ci ha abituati anche in Parasite.
Snowpiercer, serie tv distribuita da Netflix a partire da maggio 2020 e tuttora in produzione con una terza stagione (la seconda è uscita il 26 gennaio 2021), nasce come un prequel del film, da cui si scosta per stile e per profondità, ambientato in un prossimo futuro, nel 2034, quindici anni dopo la fine del mondo per come lo conosciamo ora.
La serie tv è invece ambientata nel 2026, otto anni prima, e parte dalle medesime premesse: la Terra è congelata a seguito di un esperimento scientifico per risolvere il surriscaldamento globale, le poche migliaia di superstiti umani hanno trovato salvezza su un treno comandato da un misterioso Signor Wilford.
Al netto delle contraddizioni e delle banalizzazioni della serie tv, che non può infatti reggere il confronto con il film di Bong Joon-ho, possiamo suddividere le vicende delle due stagioni in tre macro-tematiche che la elevano idealmente da post apocalittica/distopica a filosofica.
La politica. Non siamo più abituati a sentir parlare di destra e sinistra. Borghesia e proletariato. Conservatori e progressisti. Ma qui il mondo è tornato a uno stato di forti contrasti. Chi più ha, più può. È stato tolto l’orribile velo del politically correct, e i diritti dell’uomo si misurano con la ricchezza pregressa. Una come me sarebbe una “fondista”. No, non “fordista”, quelli sono nella terza classe, sono gli operai, non covano la rivoluzione, ma il più banale miglioramento del loro stato: vivono immersi nei piaceri di un vagone-night club, alcuni smerciano droga, altri sperimentano una sorta di comune e tutti tendono alla seconda classe. Chi riesce a ottenerla – attraverso cerimonia solenne e successivo certificato – migliora la propria vita attraverso una più ampia camera, cibo più gustoso e vario, e un più libero accesso ai vagoni (quelli di terza e di seconda, invece che solo di terza). Nulla di più. La vita è ridotta ai minimi termini, in fondo, e i vagoni sono solo una triste metafora delle nostre prigioni.
Dicevo. Una come me sarebbe una “fondista”. Sarei una di quelle che non avevano i soldi per acquistare il biglietto ma che, attraverso una lotta piuttosto cruenta, sale sul treno e viene relegata al vagone di fondo. La sinistra combattente che sogna un mondo migliore per tutti, e non solo per se stessi.
Qui il leader rivoluzionario è rappresentato da Layton (sorvoliamo sulla scelta dell’attore), un ex detective che unisce strategia politica a coraggio e che tenta di portare gli ammassati abitanti del fondo verso la testa del treno. Uno dei più forti simboli politici, forse l’unico, è il nome suggerito da Layton per il bambino che dovrà nascere: Trotsky. Peccato non venga preso troppo sul serio da Zarah, e peccato che glielo dica mentre lei beve tranquillamente un caffè seduta su una bella poltrona in uno degli appartamenti di prima classe, ora divenuto loro a seguito della gravidanza di lei e del golpe condotto da lui, tanto che la “compagna” Josie lo incalza convincendoci che «i rivoluzionari diventano politici terribili».
La politica è collegata al secondo macro-tema:
L’esperimento sociale e il classismo. I più ricchi del mondo hanno finanziato la costruzione del treno, i borghesi hanno pagato il biglietto, e lavorano al funzionamento del delicato equilibro per mantenere in vita un ecosistema, che senza classi sociali crollerebbe (e che infatti crolla). Ed è naturale che la tensione pasoliniana del proletariato verso la piccolo-borghesia, e di questa verso l’alta borghesia (terza, seconda, prima classe) sia qui ben presente. La schiavitù è il fondo, e i fondisti vogliono solo sperare di sopravvivere, di fronte alla morte e alle torture nulla ha più importanza, ma il resto del treno soffre di una tensione costante verso la testa.
Sentirci soli può sembrare impossibile, tutti stipati qui dentro. M questo treno è stato concepito per separarci dai nostri averi, dai nostri cari. Ora, fino all’ultimo brandello valiamo qualcosa per qualcuno […] Così continuiamo a spingere per andare in testa, per avere accesso, per sentirci più vivi. Accesso è libertà, accesso è potere. (Dottore)
E mentre il fondo crede nella lotta, il resto del treno, a suo modo, può solo credere in un dio nuovo: Mr. Wilford.
Ecco l’ultimo macro-tema. La fede. Ai ricchissimi (prima classe) è una fede di comodo. La terza si è ben organizzata in una setta wilfordiana, e la seconda è cieca di fronte al mito, in una sorta di fanatismo.
Io credo che certa gente su questo treno dimentichi che uomo generoso è magnifico sia il signor Wilford. Io no. Io non potrei mai dimenticare. È lui che fa funzionare la nostra sacra locomotiva, è Wilford che si occupa di noi, che sa esattamente che cosa ci serve, quanto cibo e acqua, quanto spazio e calore, quanta disciplina. È Wilford che ci ha salvati dal freddo glaciale, e grazie a lui che siamo vivi. (Ruth)
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