DiarioXY . LUSSURIA
Albert
In 12 Novembre 2016 da Chiara Menardo
Eccola che arriva, così leziosa. Bella e modesta, come si addice alla sposa di un rispettato contabile, ancorché di campagna.
Apre la porta e corre all’interno reggendo un mazzo di fiori di campo: le campanule stanno appassendo, perché si ostina a raccoglierle? Ha le guance rosse dalla corsa nei prati, il vestito scomposto e i capelli sono fuori posto, deve aver ruzzolato sotto qualche ramo basso: si vedono le foglie tra i fili rossicci dello chignon sfatto e cascante. Perché si ostina a correre? Non è così che si fa, non fa così la moglie di un rispettato contabile: sono persona che ha delle esigenze di vita cui non si può prescindere, io.
Necessitavo una moglie, la sorte me ne ha servita una su un piatto d’argento. Lei è bella e modesta, ignara, come si conviene a una giovinetta perbene, della sua dote così cospicua -di cui lei, ovviamente, non è al corrente poiché non si conviene, a una donna, parlar di denari – , per non dire dei possedimenti del padre che, una volta passato a miglior vita, amministrerò con oculata prudenza fino alla maggiore età dei fratelli minori di Charlotte. Forse. Non è detto che, morso dopo morso, non tragga il debito guadagno dal lavoro che metto nel curare gli affari di quella famiglia: un congruo guadagno.
Charlotte non ne è conscia, né mai lo sarà. Lei è il mio viatico, il mio strumento, la credenza dell’argenteria preziosa e brillante, che a nulla serve se non a mostrare il mio ceto. Mia moglie.
Toh, ma che meraviglia! La vedo arrivare affannata con il suo mazzo di fiori di campo, sorridente e sudata come una vacca nella stalla.
Mi è sufficiente un “Cara, hai fatto spedire le lettere come ti avevo ordinato?” perché il suo sorriso si spenga. Obbedire, quello è il suo ruolo.
Non sono tirannìe, le mie. Lei mi è stata regalata da una morente, la mantengo e a volte le consento di sentire la vita scorrere fuori dalle mura di casa: vuole andare nei campi a guardare le farfalle? Certo che può. Vuole parlare con quel suo giovane amico, Werther? Glielo concedo, come si conviene a un uomo di animo nobile. Anche perché le sue mezz’ore a saltare tra l’erba come una cicala, i suoi sospiri negli occhi mentre osserva i sospiri di colui che, sospetto, ella ami davvero, ecco: ogni sua dimenticanza, disobbedienza e mancanza, vera o partorita dalla mia mente, sono per me una manna benedetta dal Signore.
Ti ho accolta e tu mi ripaghi dimenticando un semplice favore che ti ho chiesto…
Come puoi lasciarmi solo per andare a guardare un ciliegio in fiore quando il mio lavoro mi porta così sovente lontano da te? Rimani con me, anima mia.
Oh, sei rimasta… tuttavia devo andare, gli amici mi attendono per affari importanti, giù alla locanda.
Non sei andata a gioire di uno stupido giorno di sole per restare con me e io ora ti lascio sola per le carte e il buon vino? Cara, cuore mio, come sempre non comprendi quanto la vita di un uomo sia complicata. Eppure, dovresti saperlo: non ti ho già spiegato abbastanza quanto sia difficile viverti accanto, quali sacrifici mi imponga l’amore sconfinato che nutro per te?
Non capisci, è ovvio, mio piccolo topolino di campagna imprigionato nella trappola che avevo nascosto con cura sotto un sacco di noci sontuose. Non ce la fai proprio, a capire, quindi lascia stare, deciderò io in tua vece.
Tu, semplicemente, non puoi.
Con che cuore alzi lo sguardo dipinto di un velo di delusione, dopo tutto quello che faccio per te, solo per te anima mia, pettirosso fragile e indifeso che, senza di me, nulla sarebbe se non un uccellino macellato al lato di un bosco.
Senza di me non saresti, non vali un mignolo della mia genìa ma ti ho permesso di far parte della famiglia di un rispettato e stimato contabile che, grazie a te, un giorno farà il grande salto verso poderi più grandi, verso la grande città, verso la mia rendita che, unita alla tua, è triplicata per merito della magia di due furbe manovre e delle parole più giuste sussurrate all’orecchio di una madre in balìa della demenza benedetta della malattia.
Tu non mi dedichi tempo, tu hai troppo tempo da dedicarmi perché la tua inconsapevole e comoda vita trascorre nell’ozio che io ti permetto, giovane sposa incapace dotata della sola bellezza e dell’inutile allegria di un’allodola sciocca.
Il segreto del matrimonio è il senso di colpa. In questo, la cara madre morente della mia giovane moglie e quel romantico buono a nulla di Werther mi hanno servito carri e carri di carte da giocare a mio piacimento, per gli anni a venire.
Sono un contabile, la mia vita ruota intorno al dare e all’avere, alla correttezza formale delle peggiori nefandezze, così da mascherare la grettezza altrui e, con essa, la mia.
Avere: il mio matrimonio è l’affare perfetto. Non posso perdere.
Non amo mia moglie, mi serve: è diverso.
Se mai smetterà di servirmi, come tutte le poste usurate, in tal caso… una casa in campagna, lontana dagli occhi del volgo, o un viaggio nel nuovo mondo, una tisi… qualcosa, per Dio, troverò. Ci penserò allora, quando tirerò l’ennesima somma usando l’ennesimo trucco contabile per avere ragione sul mio misero, piccolo, squallido torto.
Leggi anche il diario di Lotte…
Il libro…
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Titolo: I dolori del giovane Werther
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Titolo originale: Die Leiden des jungen Werthers
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Autore: Johann Wolfgang von Goethe
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Prima edizione: 1774
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