Le storie superbe . SUPERBIA
Per mia colpa
In 25 Settembre 2016 da Fabio MuzzioIl racconto quarto classificato di StorieSuperbe – La Superbia
di Diego Cocco
Un bambino di tredici anni, ero soltanto un bambino di tredici anni alla quarta o quinta confessione.
Il prete, il sacerdote, l’assassino, il corpo dentro la veste dei segreti era una figura scarna sui settanta. Mi stava aspettando con l’acquolina in bocca, seduto su una sedia di legno scuro. Un vecchio cazzuto gonfio di coraggio e dal volto di un serpente di ghiaccio.
Aprì la bocca e iniziò a divertirsi. Dovevo essere un bel giornaletto pornografico o acqua santa all’inferno o l’ultimo pesce nella rete. Mi chiese quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui avevo deciso di rimettere i miei peccati nelle mani del Signore. Vidi le sue mani frugare sotto il banco: deglutii e dissi che erano almeno un paio d’anni. Venerdì pomeriggio dedicato a nuove crocifissioni di piccoli masochisti sinceri.
Scattò sulla sedia e mi fissò con piccoli occhi grigi che disegnavano ombre di morte e streghe e fantasmi con i quali avrei dovuto scontrarmi.
Aprì lentamente un cassetto, stava cercando qualcosa. Un coltello a serramanico o il peggior oggetto di tortura medievale o una bibbia rilegata con la pelle di qualche martire.
Tirò fuori un libretto marrone e iniziò a leggere alcuni passi del Vangelo. Poi breve pausa.
Volle sapere quali erano state le mie mancanze. La sua musica era all’apice, la sua erezione doveva essere all’apice. Psicologia con impronte di topo dirette verso destra. Ero nel suo covo e lui era la Madre Senza Replica.
A quel punto stavo tremando e mi fu difficile aprire bocca per vomitare tutte le orrende atrocità di tredicenne pippaiolo. Lo feci immaginando le gocce del mio sangue librarsi nell’aria e i suoi occhi da vecchio orso che si regalavano un altro pezzetto di Paradiso.
Iniziai a raccontargli di come ero sopravvissuto ai litigi con i cugini, della mia incauta propensione a non rifarmi il letto, delle parolacce pensate quando un compagno di scuola mi schiacciava la testa contro il termosifone.
Lui continuava a sospirare fissandomi con aria grave.
Quando ebbi finito, volle sapere se conoscevo l’Atto di Dolore. Da qualche parte un fulmine incendiò un enorme fienile e i contadini si spezzarono le braccia per domare il fuoco e alla fine ci riuscirono senza l’aiuto dei pompieri e quella sera avrebbero pensato siamo fottuti, le nostre vacche sono fottute, e avrebbero fatto l’amore due volte e sarebbe nata una nuova bocca da sfamare e comunque quello messo peggio rimanevo io.
Cominciai a scandire la prima fase e mia nonna, dal cielo, decise di muovere il culo e si mise a dettarmi la brodaglia, condita con il rimprovero di non essere stato attento abbastanza quando la recitavamo insieme alle sette di mattina, prima della scuola materna.
Lo vidi bloccare i movimenti delle mani come se avesse finito di contare le pallottole nascoste sotto la veste. Dopo un attimo di incertezza recitò le formule che avrebbero dovuto permettermi di riportare il culo a casa. Il sospiro questa volta lo feci io: rumoroso, liberatorio.
Nuova musica e nuovo ritmo dentro la stanza dei pacchi. Il segno della croce e la promessa di tornare lì dentro dopo due mesi.
Sorrisi e annuii. Lui si asciugò le mani e il viso con un fazzoletto.
Uscii pensando alle ragazzine con le trecce bionde, ai miei Dylan Dog e alla gloria di una partita di pallone.
Da allora sono passati ventiquattro anni. Ho incontrato uomini disperati, soli e miserabili, e donne con le gonne corte nate per sottomettere popoli e idee. Ho riconosciuto l’odore dell’arroganza e mi sono trovato di fronte a rari frammenti di luce e sono tornato a piedi perché ero senza ruota di scorta. Non mi piacciono le sedie di legno e l’apocalisse è leggermente in ritardo.
Nonostante tutta questa rovina, per quel che ne so, lui è ancora lì seduto ad aspettarmi.
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