
Le storie superbe . SUPERBIA
Doppio – I Parte
In 22 Novembre 2015 da Sara MillaI
Alla sera me ne sono tornato a casa. Prima di salire le scale, ho sistemato il mio aspetto. In una rientranza dell’androne c’è uno specchio, e la mia immagine è inquietante. Spettinato, ho una folta capigliatura ancora, qualcosa di rossiccio appena sbiancato, e uno sguardo spaventoso. Ho cercato di darmi una sistemata, di riattivare il volto a qualche espressione più umana, cordiale, addirittura serena. Non so se ci sono riuscito. Nel tempo in cui l’ascensore percorre la sua scalata ho provato a riordinare i pensieri. Sono ancora spaventato. Sembro il buon borghese di altri tempi. Salgo sul mio ascensore antico, in questo palazzo al centro della città, dove la mia casa si sviluppa su un unico piano. Sono riconosciuto e rispettato. Anche molto annoiato. Mi rendo conto che è per questo che ho messo a rischio ogni certezza. Comprendo di essere un idiota. Ma questo non basterà. Non questa volta. Finalmente sono davanti alla bella porta di casa mia. Il biondo morbido di questo legno mi ha sempre fatto pensare ai capelli di mia moglie. E senza riflettere suono il campanello. Primo passo falso. Entro sempre con le mie chiavi, in maniera silenziosa. È un’abitudine che conservo dai tempi in cui eravamo studenti e già vivevamo insieme. Chi sapeva della mia consuetudine diceva di me che ero geloso, e che per questo entravo di soppiatto in casa mia. Ma non è questo, credo; piuttosto il bisogno di immaginare di essere in incognito in un’abitazione straniera, per poi accorgermi con piacere che è mia quella libreria, e quella poltrona e il tavolino con i libri, e il tappeto. Giocare a fare lo straniero, quello capitato da un’altra dimensione. Una cosa apparentemente innocua. Ma oggi mi accorgo che stavo giocando proprio a quel gioco lì, e ora non so se ne uscirò. Una volta che la casa mi si confermava come la solita casa, mi prendeva il tedio. Mia moglie era seduta in cucina e alzava la testa per sorridermi. Ora aspetto che mi apra la porta. Non posso fare a meno di pensare all’altra porta, a quella che mi ero tirato dietro le spalle precipitosamente. Non posso non pensare ad Anna, al suo aspetto che non ho avuto bisogno di controllare oltre. Sono un medico io. E nell’andare a precipizio giù per le scale, senza nemmeno sentire il fastidio della mia corpulenza, volavo per quei gradini, mi balenava il viso di Anna come d’un coccio in fondo al fiume, un nobile reperto manomesso dall’acqua, dai detriti, eroso, un fantasma fluttuante. E ne avevo il terrore. Non c’erano pensieri razionali, solo immagini che si autoproducevano, mentre nel frattempo il corpo compiva il suo dovere: correva. Ma a un certo punto avevo dovuto rallentare, il peso era tornato in me, mi ancorava a quel vicolo, e mi spingeva a pensare: non correre, tu non sei qui. Quindi, con il sudore raggelato lungo i lombi, mi ero condotto alla mia macchina, per benino, e a casa. Di fronte alla porta che mi avrebbe aperto mia moglie. Avevo attraversato Parigi, dal sobborgo dove abitava Anna, un lercio sobborgo a nord est, come mi era piaciuto dirmelo, sussurrarmi “un lercio sobborgo”, così eccitante era per me immaginare la penombra delle sue stanze, un certo abbandono, il divano stinto, le persiane accostate, le grida in gergo dei vicini, lo sporco del vicolo, tutto il campionario che aveva presa su di me, purtroppo. Anna l’avevo conosciuta in clinica, mi avevano chiamato per una consulenza, ed ero andato. Non faceva parte della mia clientela privata, e accanto al suo letto non c’era la sua famiglia, ma un uomo che poteva permettersi di pagare la mia scienza. Con lui parlava esclusivamente in verlan, era magrissima, calma, arrendevole. Così mi ero addentrato in quella relazione, spostandomi dal nord est al sud est della città qualche volta alla settimana. Ero un provinciale, lo ero sempre stato, avevo sposato la mia compagna di corso, avevo studiato come un mulo, volevo la casa, volevo i soldi, volevo il prestigio. Ero diventato massiccio, il rosso dei capelli si era sbiadito, e la sera entravo in casa mia, in punta di piedi, e cosa vedevo? Un luogo confortevole, la testa bionda di mia moglie china a guardare il pavimento della cucina. Certo, spostarmi verso le banlieu, a volte in pieno giorno, annullavo gli appuntamenti meno importanti, le partecipazioni benefiche, andassero in malora, comportava qualche rischio, ma avevo la sensazione, in qualche modo, di essere protetto. Non cercavo una situazione “confortevole” come nella vita ero andato costruendomi, ma volevo incontrare un estraneo, ricongiungermi con un fratello separato alla nascita, girare per casa nudo, perfino sporco, lasciar passare le ore tra una dose, un delirio, una fantasia. E di Anna, che pensavo?
… continua…
Sara Milla è educatrice, scrittrice e organizzatrice di eventi culturali e mostre d’arte a Roma, dove vive. Ha pubbicato due libri:
- Il rischio della formica – Epika edizioni
- Il rifugio – Ottolibri
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