DiarioXY
L’absinthe
In 24 Febbraio 2018 da Chiara MenardoFinisco questo e basta, me ne vado. Vado, barcollando come una nave nella tempesta: un passo e scarto a destra; un passo e scarto, dondolando, a sinistra; inciampo nelle fughe del marciapiede e in questo modo, non so come, ritorno, ondeggiando, da qualche parte.
Non sono mai stata su una nave che cavalca le acque in mezzo a una tempesta. Nemmeno con il mare calmo sono stata su una nave, ma credo ci si debba sentire così quando si hanno le onde sotto i piedi. Barcollanti, senza centro. Ripensandoci, non sono mai stata al mare ma ho sentito, qua e là, i racconti di gente che c’è stata e che ci è persino salita, su una nave… una barca… una nave… sì, insomma, là.
Intanto, adesso mi è tornata sete e ne vorrei un altro. Un’altra.
Fata verde: un’altra bottiglia per favore, Monsieur.
Chissà se mi ha sentito, se ha capito.
«Tu mi hai sentito?» Ma non mi guarda, non risponde, non parla con me. Seduti allo stesso tavolo, siamo entrati insieme in quest’oasi di fumo, specchi, di voci confuse. Come si chiama? Jean! No, Laurent… Non so, non mi ricordo ma so che siamo entrati insieme perché entrambi abbiamo bisogno della magia della fata dei prati per andare avanti e fissare il vuoto.
I muri ora sono storti e il pavimento si alza, si abbassa, comincia a girare mentre io rimango ferma. Oppure, forse, sono io che giro e la stanza si agita: può essere.
Le facce di quelli che passano sono tutte uguali, sformate dal gusto feroce e dolciastro dell’alcool e non le vedo, non le distinguo in mezzo alla nebbia profumata di anice e zucchero sciolto. Non le vedo.
Quando mi sforzo e mi soffermo a guardarle, non mi dicono nulla. Niente di niente, sono corpi che vagano spenti, rami secchi ricoperti di abiti che girano, avanti e indietro, per questo stanzone affogato nel fumo dei sigari, nell’alito caldo di vino e liquori scadenti, nell’odore misto di vite poco lavate, zuppe di pioggia e sudore. Un altro giro, un’altra bottiglia di fata per me, oste. Poi tornerò da dove vengo, sull’uscio malato di casa, in fondo alla strada.
Mi siederò sulla seggiola rotta, alzerò la gonna sulle ginocchia e aspetterò, buona buona, che arrivi qualcuno a farmi guadagnare un altro bicchiere, il prossimo giro di valzer sulle ali di una fata a colori.
Guardo avanti e non vedo altro se non punti lontani, che con il passare del tempo diventano ancora più distanti. Minuti, giorni, anni, la mia esistenza si srotola piena di polvere e macchie, come la guida consumata appoggiata sulle scale, con il passato uguale al presente, uguale a domani.
Invecchio. Giorno dopo giorno sempre meno uomini mi guardano, si fermano. Invecchio. Sento un dolore sotto le costole, uno alla gamba sinistra, il cuore che batte nelle orecchie, sempre più spesso. Invecchio.
E mentre osservo un punto lontano senza vederlo davvero, penso a quando arriverà il giorno in cui non avrò più bisogno di sedermi sul gradino alzando la gonna sulle ginocchia, quel bellissimo giorno quando non avrò più bisogno di alzarmi, mangiare, dormire, bere, fare un giro di valzer sulle ali della fata a colori, aprire gli occhi, tirar dentro l’aria dal naso e soffiarla via dalla bocca. Ecco: quello sarà, finalmente, un giorno buono.
Invecchio, in una vita fatta di nulla, di sogni strizzati da cui ho cercato di ricavare qualcosa, ma è stato inutile. Tutto inutile.
E allora brindiamo, vecchio bastardo barbuto che mi siedi di fianco aggrappandoti al vino annacquato. Brindiamo senza guardarci, senza parlarci, ciascuno nascosto dentro la sua parte di muro, brindiamo alla vita che nulla ci ha regalato, nulla ci ha dato, che ci ha fatto sfilare davanti al naso i sogni e la gioia solo per il gusto di toglierceli da sotto le grinfie ogni volta che abbiamo provato ad allungare le mani e afferrarla.
Brindiamo, mio stupido amico ubriaco, perché tanto nessuno conosce nessuno, nemmeno sé stesso. Brindiamo al giorno che passa, brindiamo a domani: è bello, domani avremo un giorno in meno davanti. E allora leviamo il bicchiere, celebriamo come si deve la fine di questo supplizio.
Continuo a bere, anche se credo che mi faccia del male. Tanto, dalla mia non ho altro, per cosa vale la pena andare avanti se non per questi momenti in cui sto qui seduta a guardare i riflessi amarognoli e dolci delle gocce di zucchero che colano, fresche, dentro al bicchiere?
Non ho altro.
Quello che non ho me lo tengo ben stretto, come fosse un tesoro. Lo guardo, lo giro pensosa tra le mani, lo spolvero attenta, per non rovinarlo di più.
Chi mi vuole?
Tu, comunque ti chiami, vuoi prendere questa donna come tua legittima cosa per usarla, svestirla, pagarla, finché la mezz’ora concessa non vi separi? Acconsenti e finiamola qui con le smancerie, saliamo i gradini e facciamo quello che dobbiamo fare, così posso tornare al caffè a disfarmi di assenzio e dimenticare quello che sono, non sono, non sono mai stata e non sarò mai. Per quanto ti riguarda, puoi andartene a casa, da tua moglie, dal tuo amante, a sfondarti di oppio, all’inferno: il momento di interessarmi di te è terminato quando ti sei rimesso su le bretelle.
In quanto a me, oste, un altro giro di giostra, di niente, di assenzio. Me lo sono guadagnato, l’ennesimo volo sulle ali della fata verde.
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