
SPECIALE QUARANTENA . StorieDiVirus
La verità tra le scarpe
In 19 Aprile 2020 da Chiara MenardoÈ come un salotto circondato dall’erba che nessuno più taglia. Quattro panchine davanti alle elementari, uno spazio di chiacchiere per nonni in attesa dei nipoti all’uscita di scuola.
Adesso sono deserte così come il parco giochi, la strada larga, il prato verde cosparso di non ti scordar di me, false ortiche dai piccoli fiori viola, denti di leone.
Così vuoto da sembrare sospeso a mezz’aria; una solitudine rotta da rare presenze che si ritraggono appena scorgono un altro essere vivente venire loro incontro.
Tempo rarefatto e impaurito, chiuso in sé stesso, in attesa che passi la tempesta che ha invaso anche quest’angolo di strade ampie e case basse di periferia. Parco, alberi e piccoli viali, panchine solitarie o che si guardano in faccia: tutto è in attesa di vedere come finirà la distopia che ha invaso il presente.
Domenica mattina, ore nove. La giacchetta grigia, i jeans sbiaditi sulle cosce, le scarpe da ginnastica blu, i capelli corti scuri e ondulati, la barba di un paio di giorni. Una donna cammina accompagnata dal cane al guinzaglio. Lui, seduto su una delle panchine davanti alla scuola, fermo, con le mani raccolte tra le gambe e lo sguardo fisso come se cercasse l’origine dell’universo nello spazio tra la punta delle scarpe.
Non si muove.
Neanche un tremito: immobile come una statua disfatta e ingrigita capitata per caso su quella panchina che osserva la strada, l’erba incolta del prato e il murale colorato dipinto sulla facciata della scuola.
Cinque minuti che diventano dieci e anche più: mille pensieri forse si agitano, nessun movimento.
La donna con il cane lo guarda: in questi giorni una persona seduta su una panchina è come la ruota panoramica di luna park che gira, illuminata da mille lucine colorate, in mezzo al deserto. Unica, strana, fuori posto, si nota.
Lo osserva all’andata, lo trova di nuovo così, intento a cercare un punto nascosto tra le scarpe, quando torna verso casa reggendo il guinzaglio.
Il giorno dopo, il salotto di panchine disposte come un quadrato dai lati aperti davanti alla scuola è recintato dal nastro bianco e rosso della protezione civile. È proibito sedersi.
Una settimana, due giorni o dieci, comunque il tempo passa.
Una mattina imprecisata, ore nove. Giacchetta grigia, jeans sbiaditi sulle cosce, scarpe da ginnastica blu, capelli scuri e ondulati, barba di un paio di giorni. La panchina solitaria lungo il vialetto erboso e lui che continua a cercare, ostinato e compreso, qualcosa che non smette di nascondersi tra le punte delle scarpe.
Una statua disfatta e ingrigita spostata solo qualche metro più in là, su un’altra panchina. Sempre in silenzio, sempre da solo, sempre immobile e sospeso come il tempo che ormai significa poco.
La donna con il cane lo guarda mentre passa trascinata dal guinzaglio. È di nuovo lui, pensa.
Chissà perché sta lì, seduto da solo su una panchina isolata, così fermo, sempre nella stessa posizione. Una persona da sola seduta su una panchina in questi giorni si nota, è come il fanale di un treno che spunta da dietro una curva di notte. Si nota e non lo dimentichi, tanto adesso è stonata e fuori luogo una persona del tutto normale seduta su una comune, banale panchina.
Lo trova nuovamente al ritorno, cinque minuti dopo, o dieci o venti: chi lo sa. Sembra finto, pensa, sempre uguale a sé stesso: stessa giacca, stessi jeans, stesse mani incrociate, stesso sguardo perso sul marciapiede.
La donna passa e va, torna a casa trascinando il guinzaglio.
Un’altra mattina, ore nove.
La donna con il cane al guinzaglio cammina lungo la strada alberata. Non passano ancora le macchine, ancora la gente sta a casa. Qualche raro passante: uno con il cane al guinzaglio, un paio di persone camminano leste con le mascherine che coprono le facce: pochi, pochissimi rispetto a prima, quando era tutto normale.
Alla fine della via lunga e dritta, sotto i rami di un albero carichi di foglie nuove dal verde che scintilla sotto i raggi del sole, una giacchetta grigia, un paio di jeans scoloriti sulle cosce, capelli neri ondulati e barba di un paio di giorni. In piedi, di fianco al tronco chiaro, immobile come un monolite fissa un punto incollato sul marciapiede, tra la punta delle sue scarpe.
Lo vede arrivando, trascinata dal cane al guinzaglio che annusa ogni angolo e filo d’erba; cambia lato della strada. Come ci si abitua in fretta ad allontanarsi.
Un uomo in piedi, immobile sotto un albero, non si può non notare in questa sceneggiatura alienata in cui le poche anime in giro vanno veloci, camminano guardandosi intorno pronte a giustificare, se solo richieste il perché e il per come di ogni singolo passo.
La donna che si fa trascinare lungo la strada dal guinzaglio del cane si volta spesso per controllare se la giacchetta grigia sia sempre lì, sotto quell’albero a guardare la verità che gioca a rimpiattino tra le punte dei piedi.
Cinque minuti, dieci, forse qualcosa di più, poi sparisce di colpo, come un folletto dei boschi in giacchetta, con la barba da fare.
Chissà dove è andato, chissà cosa fa, a cosa pensa, perché sta sempre fermo a guardarsi le scarpe invece di muoversi un po’, sgranchire le gambe e camminare, si chiede la donna con il cane al guinzaglio.
Chissà cosa nasconde quel punto tra le punte dei piedi dell’uomo con la giacchetta grigia da poco, i jeans lisi sulle cosce e la barba di due giorni. Poi passa e va via, torna a casa trascinata dal cane.
L’uomo apre la porta di casa, sfila la giacchetta grigia e va in bagno a lavarsi le mani. Nella stanza, la madre lo guarda senza riconoscerlo, senza parlare. È piccola e fragile nelle rughe profonde che le rigano il viso. È da tanto che non sa più chi sia. Sta cercando la verità che ha perso insieme alla memoria, tanti anni fa. È convinta di trovarla da qualche parte, tra le punte delle vecchie pantofole azzurre.
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