Le storie superbe . SUPERBIA
Operazione plenilunio – V
In 30 Ottobre 2016 da Gianfranco Monaca V
(… continua dalla PARTE I, dalla PARTE II, dalla PARTE III e dalla PARTE IV)
Una donna forte, Mariam, la madre di Jeoshua. Di famiglia discretamente benestante, si diceva che da adolescente era stata vittima di un abuso che l’aveva ingravidata; tutto era stato subito messo a tacere, ma non così presto che la gente non ne avesse parlato, e anche lungamente. Era già fidanzata a Josef-ben-David, un piccolo imprenditore che, quando se ne accorse, avrebbe potuto fare uno scandalo e chiedere i danni alla famiglia di lei, come tutti i pettegoli si sarebbero aspettati. All’epoca, la ragazza sarebbe stata considerata adultera e, secondo il codice degli ultraortodossi, avrebbe corso il rischio della pubblica lapidazione. Josef era sconvolto: poteva anche farla abortire, la legge lo avrebbe permesso, ravvisando gli estremi della violenza carnale, della gravidanza indesiderata, della giovane età della donna, dell’ostilità dell’ambiente sociale, eccetera. La ragazza non era d’accordo, voleva tenerselo, diceva che un figlio è sempre un dono di Dio, e che poteva anche essere un grande profeta, o un artista, o uno scienziato, perché no? Era stato così con Samuele e con Mosé. Joseph andò a consigliarsi con diversi saggi, poi anche con una coppia di cugini della fidanzata, Zacharias ed Elisabeth, sulle montagne della Galilea, ad Ain-Karim, dove abitavano. Due persone intelligenti e istruite, religiosi senza bigotteria, che gli tolsero gli ultimi dubbi, e il matrimonio fu celebrato con solennità. Il bambino nacque in una situazione d’emergenza, come se Josef avesse voluto sottrarsi alla pubblicità. In realtà aveva dovuto andare alla capitale per questioni di carte da regolarizzare, e aveva portato con sé la moglie incinta all’ultimo mese. Il viaggio in fuoristrada aveva affrettato i tempi e tutto accadde all’improvviso; non ebbero neppure il tempo per cercare una sistemazione decente, e il primogenito venne al mondo in un garage seminterrato della periferia, tra un autocarro e un ciclomotore, con la famiglia dei proprietari che faceva buon viso per non sembrare razzista. Arrivarono anche i vicini, ortolani e braccianti, una piccola comunità solidale. C’era anche un campo nomadi, non lontano, e furono i più generosi, e proposero alla puerpera di trasferirsi in una delle loro roulottes.
E poi la fuga precipitosa oltre frontiera, in un campo profughi, con i mercenari che davano la caccia ai bambini, una pulizia etnica mascherata da operazione antiterrorismo.
Fotogrammi fulminei, che attraversavano la mente di Mariam ritmate con le pulsazioni cardiache e il passo affannato, mentre il sangue le batteva le tempie e l’angoscia le mozzava il respiro. Arrivarono alla porta del carcere giusto in tempo per vedere un cellulare allontanarsi, affiancato da quattro motociclisti. In quel preciso istante la lama di una spada trapassò il cuore di Mariam. La donna si fermò portando le mani al petto, e stette ferma, impietrita e pallida come alabastro, il sudore che le raggelava la fronte. Il filmato con le sequenze del garage e della roulotte sparirono di colpo in un buio impenetrabile, come quando manca la corrente in un proiettore. Il velo nero che le avvolgeva le spalle e il capo le imbavagliò l’anima. Una statua di dolore, come la moglie di Lot in fuga da Sodoma e Gomorra. Le compagne la scossero. Vieni, che hai, corriamo.
«Non c’è fretta – bisbigliò Mariam – Non c’è più nessuna fretta».
Cambiò strada, e le guidò verso fuori porta. Verso il poligono.
Arrivarono al poligono che tutto era finito. Con lo stato d’assedio, le garanzie costituzionali erano ormai sospese. E chiunque poteva essere processato da un tribunale speciale e condannato a morte. Una volta eseguita la sentenza, hai un bel discutere, puoi anche riaprire il processo, e tra dieci anni ti danno magari anche ragione, e ti chiedono scusa. Jeoshua e i suoi avevano rappresentato la situazione decine di volte, e ora tutto si era realizzato in tre ore. Albeggiava, e un carro funebre era entrato nel poligono. Un funzionario chiese alla piccola folla che si era radunata ai cancelli se ci fosse qualcuno che reclamava il corpo. Le donne spinsero Mariam in prima fila, muta e irrigidita. Lo stato forniva la bara, insieme con il cadavere, e il viaggio al cimitero. Un facoltoso commerciante di sementi si fece largo e si avvicinò a Mariam.
«Mi chiamo Joseph, sono di ha-Ramatah. Non so che dire, non mi vengono le parole. Se siete d’accordo metto a disposizione la mia tomba di famiglia. Eravamo molto amici».
La tomba di Joseph di ha-Ramatah era nuova. Diventò la tomba di un commediante condannato perché faceva sul serio.
L’autorità dispose che fino a nuovo ordine una pattuglia avrebbe dovuto assicurare il controllo, nel caso di movimenti sediziosi o altre turbative dell’ordine pubblico.
***
I due che si erano incamminati verso Amwas camminavano in silenzio. Avevano saputo tutto, e non osavano parlarne. Avevano deciso comunque di non farsi vedere in città per un po’ di tempo. Un nodo alla gola. E il temporale in arrivo. Li raggiunse alle spalle un viandante, che li vide abbattuti e taciturni e li provocò: «Cos’avete da essere tanto tristi?».
I due nemmeno lo guardarono. Era cominciato a piovere, e i cappucci delle incerate nascondevano tutto, salvo la strada e lo spazio per mettere i piedi. Non avevano voglia di parlare, e poi c’erano spie dappertutto. E questo perché non si faceva i fatti suoi?
«Non li leggi i giornali, tu?», gli rimandarono.
«E allora?».
«Brutti tempi. Jeoshua, l’hanno liquidato. Credevamo che fosse finalmente l’uomo giusto per rimettere in piedi la baracca, ma ora è tutto finito».
«La laurea, per un profeta, è quando lo ammazzano. – disse lo sconosciuto – Allora si può essere sicuri che era un vero profeta. Ed è quando lo ammazzano, che un profeta incomincia a vivere davvero, nel cuore del suo popolo. Quelli che ammazzano i profeti in realtà gli danno la laurea, e danno al popolo la garanzia che si trattava proprio di profeti veri…».
Era molto istruito e molto saggio, quello sconosciuto: infilò una dopo l’altra una serie di citazioni di classici delle letterature mondiali, sembrava quasi che avesse imparato a memoria tutto il repertorio della filodrammatica di Jeoshua, con le sue battute e le sue pause micidiali.
Quanto camminarono? Si faceva buio, era ormai vicina la prima locanda del villaggio, una specie di tavola calda con uno stanzone e alcuni letti per pernottare. Di solito ci andavano i soldati, ma quella sera non c’erano soldati in giro. Erano consegnati in caserma per paura di sommosse.
«Rimani con noi, s’è fatto buio».
I due fuggiaschi volevano ancora ascoltare lo sconosciuto, il gelo del loro cuore sembrava sciogliersi lentamente, mentre parlava.
Si sedettero, la ragazza arrivò con tre bicchieri e una caraffa di vino, tanto per cominciare. E il cestino con una grossa pagnotta.
«Cosa prendete?».
Lo sconosciuto ora era in piena luce, sotto la luce al neon. L’ospite è sempre il commensale più importante. Come d’uso, spezzò il pane e fece le parti. I due si guardarono come se volessero comunicarsi qualcosa di sconvolgente, e nessuno osasse farlo per primo.
L’ospite probabilmente colse l’attimo di esitazione.
«Scusate, torno subito».
Infilò la porta dei servizi igienici, mentre la ragazza portava in tavola.
«L’altro non c’è?».
«È ai servizi, arriva subito».
La ragazza guardò verso i servizi: ne uscì un uomo corpulento dai baffi spioventi.
«Ai servizi c’era mio padre» , disse stupita.
«Pà, c’era qualcuno ai servizi?». «Qualcuno? Non abbiamo che un cesso, per chi mi prendi?».
«Sentite, non facciamo i furbi. Ho preparato per tre, e per tre mi pagate», disse con malagrazia ai due clienti impietriti.
L’immagine di copertina rappresenta un dipinto di Caspar David Friedrich, intitolato L’uomo e la donna contemplando la luna, anno 1819.
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