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Io e il dottor Zeta, la ragazza Ics ed io

Zeta #2

In 8 Dicembre 2022 da Debora Borgognoni

I telefoni squillano con ossessione. M’immagino mille fili che si riuniscono in una presa elettrica, città oltrepassate da fili, fogne, gente che cammina e consuma l’asfalto, cavi, pozzanghere da cui bevono i piccioni, e i bambini che ci saltano dentro e i piccioni sbattono le ali e se ne vanno incazzati.

I fili corrono con precisione, come equilibristi troppo agili e troppo imprudenti. Corrono per le strade, toccano lo skyline, gli strani grattaceli di vetro che non ho mai nemmeno capito, e quei palazzi che al posto del balcone hanno una vetrata fissa da cui niente e nessuno potrà mai passare. Più sicuro così. Tanto questo mondo è un posto che si accartoccia su sé stesso per crearne un altro un po’ più piccolo.

I telefoni non smettono. Alzo gli occhi. Marina non è alla sua scrivania, credo si stia fumando una sigaretta. Quando rientra, nega; si spruzza un deodorante che sembra quello per ambienti, come se la puzza di fumo svanisse automaticamente con un deodorante troppo forte.

Io non rispondo al telefono, chiamo lei ad alta voce. Lei sbatte la porta, dico di fare attenzione. Mi guarda per qualche secondo e capisce che mi sono innervosito. Si lancia su un telefono e risponde dicendo il nome dell’istituto.
È così che una segretaria dà il buongiorno all’interlocutore. Marina è brava. Ha studiato ragioneria e porta i conti come nessuno sa fare. Ha una precisione maniacale, mi dice quando esagero negli acquisti, io ho le mani bucate. Lei è di quell’invadenza che rende sicuro un uomo. La sua invadenza è una cosa buona. Se non fossi l’uomo che sono, potrei amarla, Marina.

Ora ho la sensazione che una donna scappi. Scappa da me, ogni tanto si volta ma il suo viso è nascosto da un velo bianco. Forse sono solo stanco, forse sono stato troppo al computer. Ho gli occhi acquosi, me li sento. Sento che oggi non riuscirei a mettere a fuoco. E quel viso non è a fuoco, per cui tanto vale che si giri indietro, tanto vale che indossi un velo bianco. Non riesco proprio a riconoscerti, non sbatterti troppo. E aspetta a scappare, comincia domani, che qua nessuno ti corre dietro.

Chiedo a Marina di ricordarmi gli appuntamenti, ché io sono uno smemorato cronico. O forse no, non lo sono mai stato, ma essendoci lei me ne sono preso il diritto ad honorem, una pigrizia che sa di vecchio, di quei cinquant’anni che si affrettano a raggiungermi con fare addirittura imbarazzante.

Non ho appuntamenti, mi dice. Non ne ho da un bel po’, ma è come se il callo non fosse mai andato via, non fosse mai guarito. Come una cosa automatica, che mi chiede: Controlla, dai, controlla quel telefono per cui hai sborsato settecento euro. Settecento per due uguale a millequattrocento, perché sei talmente stronzo che ne hai due uguali, due iPhone neri che il prossimo anno cambieranno impercettibilmente, si allungheranno un po’, si stringeranno un tantino, si assottiglieranno e poi ci sarà quella funzione di cui i veri stronzi come te non possono mica fare a meno. Ed è per questo che hai comprato anche l’iPad, ed è per questo che fra un anno tutti e tre saranno da cambiare, riportando con iCloud tutti i tuoi contatti, quelle quattro e-mail e quei due numeri di telefono privati che non dai nemmeno a tua madre e che infatti ristagnano nel silenzio di tomba di questa tua vita di tomba. Insomma, guarda quegli aggeggi già vecchi e controlla con un piccolo e leggerissimo movimento del dito indice se qualcuno ti sta cercando.

E il movimento è sempre uguale. Ta-tac, silenzioso e leggero, maniacale nella sua incuranza. Ta-tac: nessun messaggio, dottor Zeta. Mi alzo. Marina si scosta un po’ dalla scrivania con la poltroncina a rotelle che continua a tirare su e giù come se non sapesse dove fare l’uovo. Si scosta anche con la testa per controllarmi, e io la sgamo sempre ma faccio finta di non vederla. Ci prendiamo per il culo, me ne accorgo solo adesso.

Me ne accorgo mentre mi specchio tristemente nel vetro del finestrone che dà su Brera; faccio pure finta di non specchiarmi ma di guardare fuori, talmente sono abituato a prendermi in giro.

Lei non mi ama davvero, mi stima e basta. Crede di amarmi ma non può essere vero. E forse è per questo che io non posso amare lei. Amare è un gioco che io non so più fare. Associo l’amore alla fotografia. Quando la fai, quando non ti puoi staccare dalla tua macchina fotografica e da quell’odore di pellicole, puoi concepire il mondo esclusivamente attraverso un obiettivo. Lo guardi così, non hai scelta. E sai che lo stai osservando in modo alterato, che è diverso, e forse proprio per questo continui a guardarlo da lì, per essere complice di quella meravigliosa trasformazione.

Ma quando poi smetti, puoi solo insegnare a saper guardare. E quando insegni a saper guardare è perché gli altri guardano per te, e tu sei diventato il mondo. Ti sei spostato, ti sei messo davanti e non puoi più vedere distorto.

Quel finestrone mi rimanda una cosa un po’ scura. Sono sempre vestito di nero, al massimo vario con il blu notte. Mi accorgo che c’ è un po’ di ruggine su una finestra. Il mio occhio vuole allontanarsi a tutti i costi dalla mia immagine. Sembrano cose automatiche, invece tutte hanno un senso. Io non voglio guardarmi.

«Marina! Senti, esco un attimo, devo fare due passi. Se arriva qualcuno, chiamami sul cellulare». Glielo urlo così, senza essermi nemmeno spostato da quel finestrone.

«Prenda l’ombrello, che piove».

«Ah, piove? Non sembrava. Meglio così. Senti, Marina, quanto posso spendere del mio conto privato?».

«Il suo conto privato non mi compete, dottor Zeta. Perché me lo chiede?».

«Va bene, allora apri la cassaforte. Già che esco, prendo un po’ di soldi da qui; li rimetterò dei miei privati. Quanto abbiamo?».

«Vediamo… Ci sono quindicimilatrecento euro. L’ultimo iscritto, praticamente».

«Bene. Lascia in cassaforte trecento euro».

«E ne vuole quindicimila?».

«Se la matematica non è un’opinione».

Sposto la mia mole ingombrante e mi metto un giubbino leggero ma impermeabile, che poi è sempre il solito. Guardo per un attimo quella ragazza alla sua poltrona, e lei abbassa tempestivamente lo sguardo. Dovrei girarmi anch’io adesso. Girati, dai.

Invece insisto su di lei. Rimango lì. È ovvio che lei mi stia guardando con fare imbarazzato, mi sembra un secolo che sto in piedi come un ebete. Cosa faccio? Le sorrido. Lei non capisce e sorride in modo nervoso.

Ma non dice niente. Mi consegna i soldi in una busta, e ancora una volta abbassa lo sguardo. Sa di fumo, ma ormai non mi dà più fastidio. La rimprovero sempre, ma solo per divertimento.

«Bene, esco. Ciao, Marina».

«Sì. S… S… Salve, dottor Zeta».

«Cosa fai, balbetti?».

«Io? No, no, non sapevo cosa dire», e non so perché la sua esse mi sembra un tantino più sibilante.

«A dopo, allora».

Milano trattiene la pioggia. Sembra una Londra un po’ più timida che ha una sorta di crisi di identità.

Aspetto alla fermata del tram. Non prendo un mezzo di trasporto da molto tempo. Sono anni, ormai. Perché io sono un uomo troppo ostinato o solo troppo stupido. Continuo a pagare il ticket per la ZTL. Pur essendo un residente non ho nemmeno voglia di fare la richiesta al Comune per il permesso: troppo tempo e troppe domande. E a me dialogare non piace.

Perché poi, quando capiti in Comune, incontri sempre qualche impiegato col vizio di chiacchierare. Ma lei dove abita, si sta bene a Brera, sa che ci vorrei vivere anch’io, cosa fa di bello… Così ogni volta che esco con l’auto, visto che i mezzi non li prendo mai per principio, mi collego al sito dei trasporti, inserisco la mia targa e la mia carta di credito, ed è fatta.

Adesso che ci penso, questa cosa non significa altro che solitudine. Non credo abbia altri nomi: è una scusa per non stare in mezzo alla gente, per non mischiarmi a quegli odori che mi farebbero inevitabilmente capire che ci sono altre vite oltre la mia, che mi farebbero giocare a sinestesiche associazioni di idee. Volto nero, odore di sudore, volto giallo, odore di fritto, sole, bicicletta, spezie, riso. Sono proprio fuori allenamento. Altro che sinestesia, mi sembra il gioco degli imbecilli.

Il tram arriva. Lo lascio ripartire.

Milano ha tram che sanno di antico. A me fanno pensare agli anni Cinquanta, quelli appena dopo la Seconda guerra mondiale, dove tutto veniva ricostruito e c’era ancora una speranza nonostante la disillusione.

Non posso guardare obiettivamente a questo mondo, a questo mio tempo. Eppure, direi che la disillusione c’è, ma la speranza è diventata un pagliaccio che fa ridere pochi: chi è appena nato, chi sta per morire, e chi guarda troppa TV.

Torno indietro, nella speranza che Marina non si accorga che sto per entrare nei box. Ma sicuramente se ne accorgerà. Marina è attenta e non può fare a meno di controllare le telecamere di sorveglianza. A dire il vero non mi importa, e anzi, la saluto attraverso l’obiettivo fisso. Tiro fuori le chiavi e apro la mia station wagon.


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Tags: debora borgognoni, Io e il dottor Zeta, io e il dottor zeta la ragazza ics ed io, Milano, Montag, premio montag 2013, romanzo

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